Maurizio Cabona

addio a Lizzani (1922-2013)

Per capire a che cosa servivano gli aderenti al Pci, basta vedere quelli più importanti che se ne vanno per sempre. Carlo Lizzani l’ha fatto l’altro giorno, dandosi la morte a 91 anni. Di lui si sono scritti post mortem solo elogi, come si usa. Ma li meritava.

Lizzani lascia tanti film, alcuni non riusciti, nessuno disturbante, molti importanti: per esempio Achtung! Banditi! che fu il primo da lui diretto. Lo girò a Genova nel 1951 con i pochi soldi di una cooperativa vicina al Pci. Ma ricordare il “tedesco invasore”, anche per un regista che di tedesco aveva la moglie, in quel momento era inopportuno. Nel 1949 la Germania era rinata come Stato sovrano, diventando punta di lancia della Nato, nella quale l’Italia andava a rimorchio, pronta in apparenza anche a riprendere la crociata antibolscevica con l’alleato germanico interrotta solo otto anni prima…

Si giravano dunque le scene in esterni di Achtung! Banditi! sulle alture di Genova, ricostruendo l’autunno 1944, partigiani comunisti da una parte e dall’altra alpini della divisione Monte Rosa della Repubblica sociale. Il contesto reale del momento era però un altro: il Pci aveva perso le elezioni del 1948 e fingeva di ignorare che le calcolatrici del ministero dell’Interno avevano avuto una parte nella vittoria della Dc. Oliver Stone l’ha accennato in JFK, film del 1990, e l’ha ripetuto in Usa, la storia mai raccontata, documentario del 2012.

Quasi tutti i sopravvissuti alla guerra mondiale e alla guerra civile italiana erano ancora vivi nel 1951, quindi in un film bellico non si potevano manipolare i fatti più di tanto. Al Pci, che non mancava di sensibilità popolare, interessava mostrare più il suo lato patriottico che quello classista. Così in Achtung! Banditi! i militari della Rsi sono bravi ragazzi da recuperare, non seviziatori. E il tecnico della fabbrica (Andrea Checchi, divo d’era fascista) è un borghese, ma anche un patriota. Visto oggi, Achtung! Banditi! pare il film di un revisionista. Invece era in linea con le direttive di Palmiro Togliatti. E non era una novità: l’acronimo Gap stava per Gruppi di azione patriottica, non partigiana, e il Pci – che aveva il tricolore nel simbolo – nel 1951 si batteva per il ritorno di Trieste all’Italia, anche per non darla alla Jugoslavia di Tito, traditore di Stalin.

Achtung! Banditi! non è stato tra i primi titoli italiani ad apparire in dvd (ora c’è, edito da Medusa). E la versione in videocassetta era stata presto esaurita. Dagli anni ’90, a Genova si era così cominciato a duplicarla in clandestinità. Quando lo raccontai a Lizzani, ebbe il più bello dei sorrisi: gli piaceva quella miscela di inventiva commerciale e patriottismo cittadino.Invece altri registi avrebbero pensato ai diritti d’autore perduti… E’ anche così che si impara a conoscere una persona.

Lizzani era un fascio-comunista. Classe 1922, cresciuto nei Guf, s’era avvicinato nel 1939 alla rivista Cinema di Vittorio Mussolini, diventandone collaboratore fino alla chiusura, nell’estate 1943. In quell’autunno Lizzani incontrò un giovane regista, Enrico Fulchignoni: entrambi erano scontenti del fascismo, senza ancora rendersi conto che esso era quel che la monarchia gli consentiva d’essere. I due concordarono che 25 luglio e 8 settembre potevano, dopo molte disgrazie, offrire opportunità nuove e si diedero appuntamento. In effetti si rividero, ma a guerra finita, perché l’insoddisfazione di Lizzani l’aveva portato verso il Pci, mentre quella di Fulchignoni l’aveva portato alla Rsi. Anche raccontando questo aneddoto nel suo Lungo viaggio nel secolo breve (Einaudi, 2007), Lizzani non giudicava, non assumeva l’aria di superiorità morale della gente di sinistra o estrema sinistra. In tutta la vita mai avrebbe negato o rimosso i trascorsi fascisti. Era realmente un marxista (non lo era anche Mussolini?).

Lizzani mi diceva un giorno del suo lungo soggiorno in Cina nel 1959, inviato là dal Pci, poco prima dello scisma cinese, per insegnare il neo-realismo ai registi cinesi. E davanti a quella società largamente contadina era perplesso. Infatti a un’ideologia come il marxismo-leninismo occorre un capitalismo avanzato, altrimenti degenera in settarismo sanguinario, come era accaduto in Russia dal 1917 e come sarebbe difatti accaduto in Cina (“rivoluzione culturale”).

Quest’attenzione allo sviluppo sociale gli permetterà di raccontare la società dei consumi in Italia come pochi. Certo, La vita agra (1964) girata da Lizzani, è più una storia di alienazione che di anarchia nella Milano del boom, come invece era il romanzo autobiografico di Luciano Bianciardi da cui veniva il soggetto. Certo, Banditi a Milano (1968) è meno severo con la criminalità – che conduce la più elementare lotta di classe – di quanto avrebbe potuto esserlo il film di un altro regista. Ma Lizzani evitava anche di fare dei modelli sociali dei suoi delinquenti, mentre Hollywood se lo era permesso – in chiave rétro, però – con Gangster Story di Arthur Penn.

La consapevolezza che la storia fa le nostre vita e che non sono le nostre vite a fare la storia rese Lizzani anche relativamente indulgente con lo sfruttamento della prostituzione sia nella Celestina P…R... (1965) sia inStorie di vita e di malavita (1975). Ma è comprensibile che tra gli sfruttati ci sia chi si fa sfruttatore, altrimenti i rapporti sociali non evolverebbero verso il culmine del capitalismo, condizione necessaria per l’avvento del socialismo e poi, magari, della società senza classi, quindi senza sfruttati, né sfruttatori, con conseguente morte dello Stato.

Invece ci fu, almeno in Italia, la morte della patria, coincidente più o meno con quella di un socialista che si era messo coi capitalisti, Benito Mussolini, e perciò aveva meritato la raffica di Dongo, come si vede in Mussolini ultimo atto (1974), uno dei film di Lizzani meno riusciti, come se quella vicenda – già sfiorata magistralmente nel Processo di Verona (1963) – non riuscisse proprio a raccontarla, se non per luoghi comuni. Come voleva il Pci già frollo di allora. Del resto chi darebbe il meglio come artista narrando la fine dei sogni di gioventù?

(“barbadillo.it”, 6 ottobre 2013)