Il
testo che segue è tratto dagli atti relativi agli incontri su “Lettrismo e
situazionismo” tenutisi a Livorno nel giugno del 2005 presso
la rivoluzione e gli
intelligenti
Guy Debord ha goduto di un’attenzione postuma verosimilmente prevista e, in parte, preparata, se si pensa a come negli ultimi tempi egli si fosse adoperato nel blandire – o nel farsi blandire, comunque in palese contrasto con un passato come minimo canzonatorio – personaggi potenti del mondo editoriale quali Philippe Sollers. Ciò non vuol dire che l’obiettivo sia stato raggiunto unicamente in questo modo. Vari fattori vi hanno concorso e alla necessità, per molti, di recuperare un pensiero che risultasse immune da ciò che la caduta dell’URSS aveva una volta per tutte rivelato, va concesso un peso rilevante. Si può dire ormai che Guy Debord e la sua creatura, l’Internazionale Situazionista, siano entrati a tutti gli effetti a far parte, come componenti non più esoteriche, del nuovo panorama di movimenti radicali (o presunti tali) che fanno parlare di sé da qualche anno, finalmente liberati da quell’ingombrante “primo stato proletario” la cui presenza, malgrado critiche affilate, volenti o nolenti, attraverso le circostanze “bipolari” della guerra fredda, creava un tempo vaste zone di ambiguità non sempre facili da dissolvere.
Nel nuovo contesto, quanto mai eclettico, Debord e l’Is mi pare abbiano raccolto in un sol botto sia la rispettabilità che si concede a una teoria purificata, adeguata all’epoca e, in qualche misura, profetica, che la venerazione per il gruppo che più di ogni altro si vocifera abbia segnato il lontano e leggendario 1968, quasi che le sommosse di quell’anno fossero poste in atto da una sorta di cospirazione della cui regia proprio l’Is avrebbe posseduto il segreto, salvo prima o poi accennare alla diffusa spontaneità delle ribellioni e al “miracolo” del loro accadimento simultaneo.
Di fatto, il “radioso maggio” francese dovette parecchia della forza che ebbe nell’agire sull’immaginazione al soverchio interessamento dei mezzi di comunicazione, complice probabilmente, di concerto con l’occhio di riguardo posto sul “fenomeno” giovanile, un’idea che ancora resisteva (fra diverse altre traballanti) di Parigi quale generoso teatro della libertà. Assistere una volta di più alla profanazione dei vialoni disegnati dal barone Hausmann - ritinteggiati per giunta dal ministro in carica Malraux - era in effetti emozionante, tanto più che solo qualche settimana prima “Le Monde”, osservando quanto succedeva in Germania, Italia e Stati Uniti, sentenziava che “la Francia si annoia”.
Quel che entrava in
quei giorni nelle abitazioni di mezzo mondo consistette in sostanza nei cortei,
nei manifesti, nella foto che ritraeva una novella “Marianna” riecheggiante una
volta di più la libertà che guida il
popolo e nel contagioso sorriso di Daniel Cohn Bendit. Fattori ben degni,
sebbene sia divenuto noto che la suddetta foto fu bellamente costruita (al pari
del miliziano spagnolo colpito a morte, della bandiera sovietica issata sulle
rovine del Reichstadt, delle partigiane milanesi il giorno della liberazione
ecc.) e
Stravagante fin che si vuole, anche un vecchio piumino di cipria stalinista come Aragon uscì allo scoperto rallegrandosi, contro il suo partito, del movimento, ma si è saputo che, nonostante Elsa, egli non restava indifferente ai giovani, e a quel punto i boulevards ne erano pieni. Dell’Is viceversa si sapeva poco e se scelse strade particolarmente originali onde influenzare gli avvenimenti – per una volta che nella mischia pare ci si buttasse sul serio – non fu facile da appurare. Da ciò, in qualche modo, derivarono le sue fortune poiché quando se ne fosse scoperto il ruolo in quegli avvenimenti essi sarebbero stati compresi per davvero. Tutto ciò che accadeva nel mondo si sarebbe compreso per davvero. Mettersi in tasca così a buon mercato la coscienza della propria epoca era allettante. In realtà solo una minoranza ne approfittò, quantunque da allora nulla che provenisse dal passato o si proiettasse nel futuro le poté più sfuggire nella sostanza, perlomeno così credeva. Il “sessantotto” divenne dunque l’Is e - considerando effettivi gli imperscrutabili impulsi auto-castratori di chi non lo era - fu innanzitutto francese.
Sarei tentato di vedere in ciò una lunga campagna di persuasione subliminale giunta a maturazione (come dire, al successo) diversi anni dopo. C’è tuttavia da rimaner stupefatti nel constatare che un libro recente dedicato al “sessantotto”, tutto sommato con buona vena, nemmeno nomini Debord (Mark Kurlansky, ’68, l’anno che ha fatto saltare il mondo). Sarà forse perché l’autore è “americano”, ma di quelle parti è anche Greil Marcus, il cui Tracce di rossetto è un frutto maturo dell’ipotetica campagna subliminale, e americano è Ken Knabb, uomo sicuramente di spirito ma fatalmente toccato in gioventù dall’Is, il quale aspetta il giorno in cui Debord sarà procalamato “il più grande rivoluzionario del XX secolo”. Va considerato che in certe parti del mondo si presta una malsana attenzione ai fatti concreti, e questo può spiegare certe negligenze nei confronti di quelli teoretici. L’Is aveva di che sembrare un piccolo cenacolo precariamente avvitato nella spocchia intellettuale del suo membro più in vista. Viceversa, proprio negli Stati Uniti degli anni intorno al 1968, il movimento di contestazione produsse un’infinità di trouvailles, molte più di quelle che l’Is poteva aver pensato. In un paese la cui storia televisiva era già profonda – mentre in Francia la Tv apparve tardi anche rispetto agli altri paesi europei – si pensava concretamente di manipolare i mezzi di comunicazione di massa anziché farsi manipolare da loro. A quel punto persino la risibile minaccia di unire a un’ora fissata tutte le coscienze avverse alla guerra in Vietnam per tentare di far “levitare” il Pentagono diventava un fatto concreto.
Dall’Europa – a meno che non si trattasse delle rivolte nei quartieri dei negri – un certo modo di esprimere il dissenso appariva ingenuo, vagamente hollywoodiano e privo di spessore. La Francia, dunque, piuttosto di svilire nella farsa il prestigio della “scuola di Parigi”, si annoiava. C’era però l’Is e l’Is possedeva “la teoria”. Questa teoria era sottoposta a continui perfezionamenti che portavano all’esclusione di chi non vi stava dietro. Arrivò poi il momento in cui venne deciso che ormai la teoria si era dissolta nella realtà, cosicché da quel momento la realtà non poteva più contraddire la teoria.
Lo stile ambizioso di Guy Debord, in cui principalmente si era espressa, tendeva alla sentenza. Siccome era noto l’attaccamento di Debord per i “moralisti” del XVII secolo si finì con l’essere portati a credere che lo stile dei suoi epigrammi costituisse una loro felice discendenza. Ciò poteva esser vero per gli scritti, piuttosto malinconici, successivi alla chiusura dell’Is, ma l’impressione è che lo fosse molto meno per il suo acclamato capolavoro La societé du spectacle. Qui Debord aspirava piuttosto a riprodurre i modi letterari di Karl Marx, esasperandone il tipo di sentenza in poche righe, privandolo, in sostanza, di tutto quell’erudito apparato di riflessioni che ne fecero, se non altro, uno dei più colossali sforzi intellettuali del XIX secolo. In un certo senso – come l’Is pretendeva di aver portato il ciclo dell’arte alle sue conseguenze ultime – con questo scritto si voleva toccare il punto più alto del marxismo, la sua estrema coerenza in un mondo estremo ridotto a pura rappresentazione. Curiosamente, è in questa rappresentazione che la critica avrebbe dovuto agire dissolvendosi, e naturalmente sorge il dubbio che essa stessa fosse una rappresentazione. Era chiaro che per ogni altra dichiarata “teoria critica” ciò era ritenuto vero, ma non per questa, miracolosamente passata indenne nel mezzo dei disastri dell’alienazione umana fino ad arrivare al suo ultimo custode, che sapeva cosa farne.
In sostanza Debord avanzava crediti da ogni critica sociale degna di questo nome, in compenso faceva di tutto per non pagare i debiti che aveva contratto col gruppo di “Socialisme ou barbarie” e con Henry Lefebvre. Vari gruppi radicali, pur forti di un’autonoma elaborazione, cedettero alla sirena dell’Is che diventò così il parametro sul quale valutare i propri fondamenti e ripulirsi l’anima. Le nuove leve di allora orientate alla riflessione teorica variavano quanto a partecipazione militante. Si andava dai giovani studiosi tedeschi alla Hans Jurgen Krahl, assai profondi ma del tutto somiglianti ai “marxisti della cattedra”, fino ai gruppi “consiliaristi” e di variabile “links” comunismo. Certi parallelismi con l’ideologia dell’Is si potevano riscontrare in Jacques Camatte, autore di una monografia, pubblicata dai “Cahiers de Spartacus”, dedicata ad Amadeo Bordiga ma che col “bordighismo” in senso stretto aveva rotto. L’idea di un originario “programma” marxista che il “partito” doveva custodire intatto, propria della “Sinistra comunista italiana” ispirata da Bordiga, rimaneva (la rivista di Camatte si chiamava non a caso “Invariance”) per quanto venisse articolata in nuove soluzioni determinate in gran parte dalla lettura dei testi inediti di Marx (il quale, per inciso, di programmi veri e propri non ne aveva mai scritto).
Da questa articolazione, sviluppata in diverse soluzioni, e dal confronto a distanza con l’Is, sarebbero spuntati in ogni caso alcuni testi, soprattutto italiani, come Apocalisse e rivoluzione di Giorgio Cesarano e Gianni Collu, che negli anni Settanta contrastarono, con la forza di argomenti radicali, l’insulsaggine e la prigionia ideologica cui indulgeva molta dell’eredità del “Sessantotto”, ripiegata ormai in formule morte (se non mortifere). Quanto all’Italia, mi pare opportuno ricordare che l’interesse nei confronti dell’Is non maturò in virtù dell’antica sezione italiana di Pinot Gallizio e nemmeno grazie all’attività di Gianfranco Sanguinetti, l’ultimo stretto collaboratore di Debord, ma si fece strada piuttosto, specialmente nel vecchio triangolo industriale e nel napoletano, nell’ambito di piccoli gruppi spesso attivi ben prima del 1968, come a Genova il gruppo, in seguito denominato “circolo Rosa Luxemburg”, legato all’inizio, nel 1961, al notiziario “Democrazia diretta” che radunava attorno a Gianfranco Faina anche anarchici e socialisti.
Potrebbe sembrare una presa in giro, ma fintanto che Debord era in vita aveva manifestato un olimpico distacco nei confronti dei suoi seguaci e disprezzo verso chi voleva metter bocca negli affari dell’Is. Negli ultimi anni il vecchio guerriero delle “derive” (passeggiate) parigine aveva messo le pantofole ai lati più spigolosi del suo carattere. Da morto si cercò di farne il più lungimirante degli intellettuali. In Francia trovava spazio da tempo, rimbalzando un po’ dovunque e facendo fortuna nell’insegnamento delle università americane, la scuola della “sparizione della realtà”. Senza andar troppo per il sottile, questa scuola aveva qualche consonanza (e per almeno un suo protagonista, anche qualche vecchia frequentazione comune) con la teoria di Debord, al quale si poteva dunque conferire la statura del precursore, di un maestro remoto e segreto. Per giunta la sua tempra ortodossa lo preservava dall’estremismo relativista cui indulgeva detta scuola. L’operazione riuscì solo in parte, nel senso che pur ormai sulla bocca di tutti, Debord conquistò sì il proscenio, ma soltanto nella veste di geniale minore, rango che tuttavia non voleva riconoscergli il suo primo maestro Isidore Isou, il quale ristampò i suoi scritti Contre l’Internationale Situationniste dove Debord era definito come un arrivista reazionario e “nazi”.
Il destino dei famosi intellettuali francesi preoccupava a questo punto il mondo. Interrogato sulla questione, Jean Baudrillard si lasciò andare e confessò che in Francia non si esprimevano idee nuove da tempo: la riscoperta di Debord era solo aria fritta. Che lui stesso fosse “bollito” era evidente. Le sue osservazioni sulla morte di Lady Diana e sugli attentati nuovaiorchesi dell’11 settembre 2001 suscitavano qualche clamore, ma era del genere “il solito Baudrillard!”, come dire un concentrato di frasi ad effetto. In questo fu comunque superato da Thierry Meyssan che in L’effroyable imposture (subito tradotto in numerose lingue) sostenne che gli attentati dell’11 settembre erano stati compiuti da aeroplani teleguidati da elementi dello stesso governo americano. Gli intellettuali avevano firmato troppi manifesti, era tempo di inventarsi qualcosa!