Giuliano Galletta

Jonathan Littell

Ci sono due modi di affrontare il problema del Male: con e senza Dio. In tutte e due i modi la soluzione è difficile e impegna da sempre il pensiero umano. «Perchè han lunga vita i malvagi, giganteggiano, crescono in ricchezza? La loro prole è insieme a loro stabile, riescono a vedere i propri discendenti. Le loro case non conoscono la paura, lo scettro divino non li minaccia». Dio alla fine salverà, ma solo dopo inaudite sofferenze, il Giusto,l’Innocente Giobbe, ma non risponderà mai alla sua domanda. Come non può rispondere alla domanda degli altri milioni di innocenti morti ad Auschwitz.

«Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione -scrive il filosofo Hans Jonas nel suo Il concetto di Dio dopo Auschwitz (Il melangolo) - che una divinità onnipotente è priva di bontà o è totalmente incomprensibile». Uscendo dalla prospettiva della teodicea, che ha tentato di dare risposte razionali alla coesistenza di Dio e del Male, a partire da Sant’Agostino (O il Male è ciò di cui abbiamo paura, o il Male è che abbiamo paura) e venendo a una prospettiva più secolarizzata le risposte non diventano più facili, ma il Male perde la sua dimensione metafisica per diventare un prodotto essenzialmente umano. Anche il crimine più orribile non può che rientrare nella sfera dell’umano. L’inumano è quindi umano. Anche Hitler è, perciò, mostruoso in quanto umano.

«Hitler rappesenta una frattura nella storia moderna - scrive Rudiger Safranski nel suo saggio sul Male (Longanesi) - Auschwitz rappresenta un mito fondante negativo. Le forze omicide e barbariche da sempre sonnecchianti nella società umana si sono manifestate con una violenza senza precedenti, un abisso si è aperto». Guardare dentro questo abisso non è facile, a volte mancano le parole, ma guardare il mondo dal punto di vista dell’abisso è forse ancora più difficile e infinitamente più istruttivo.

Lo ha fatto Jonathan Littell (ebreo, nato a New York nel 1967) nel suo romanzo di esordio Le benevole (Einaudi, 952 pagine, 24 euro),scritto in francese e già diventato un caso letterario dopo avere vinto il premio Goncourt, con vendite alle stelle e recensioni che paragonano Littell ai grandi della letteratura, da Tolstoj a Stendhal.

Il libro è costruito come l’autobiografia (l’autore usa la prima persona) di Maximilien Aue, intellettuale e carnefice nazista, uno di quei malvagi che sfuggono alla giustizia di cui parla Giobbe.

Fratelli umani lasciate che vi racconti come è andata. Non siamo tuoi fratelli, ribatterete voi, e non vogliamo saperlo. Ed è ben vero che si tratta di una storia cupa, ma anche edificante, un vero racconto morale ve l’assicuro. Comincia così il racconto della vita di Maximilien Aue, SS di successo, assassino spietato e abile organizzatore dellOlocausto.

E l’agghiacciante autoritratto di un esteta raffinato, colto quanto basta e giurista di formazione (anche il nazismo ha elaborato una sua forma di diritto con illustri professori pronti a difenderla), Maximilien - padre tedesco e madre francese con relativa famiglia problematica e rapporti incestuosi con la gemella Una – irrompe sulla scena del male quasi per caso: entra nelle SS - ma è già un convinto nazionalsocialista - per evitare la prigione dopo essere stato fermato dalla polizia al termine di un incontro omosessuale.

Da quel momento il giovane Maximilien percorre senza esitazioni ogni grado del cursus nazista e dei conseguenti orrori. Ebrei, zingari, oppositori politici: nessuno è risparmiato dalla falce mortale di Maximilien che attraversa l’Europa dell’Est sterminando untermensch, i popoli inferiori.

La sconfitta in guerra non mette a posto i conti: Maximilien sfrutta la perfetta conoscenza del francese per mascherarsi e sfuggire alla condanna. Diventa direttore di una fabbrica di merletti nel nord della Francia e prospera. Il passato, nel frenetico dopoguerra della ricostruzione, appare lontano e tutto porta al futuro o ad una quieta vecchiaia. Eppure Maximilien - che non ha dimenticato - vuole scrivere per mettere in chiaro - dice - le cose per me stesso. Pur consapevole del male e del dolore, non rinuncia così a giustificarsi: per ciò che ho fatto - afferma – c’erano sempre delle ragioni, giuste o sbagliate, non so, in ogni caso ragioni umane. Lo stile del libro è asciutto, mima nel linguaggio la mentalità burocratica del protagonista, una sorta di Eichmann culturalizzato.

Uno di quei tanti - scrive Hannah Arendt nel suo Alcune questioni di filosofia morale (Einaudi) - in cui «la morale crollò o si afflosciò come un vuoto insieme di mores. Usi, costumi,convenzioni che si possono cambiare quando si vuole, non a causa dei criminali ma della gente ordinaria che fino a quando le norme morali erano accettate da tutti non si sognò mai di mettere in dubbio ciò che le era stato insegnato». Se le cose stanno così, Auschwitz non ci appare più così lontana e l’abisso sembra alla portata delle nostre povere scarpe.

“Il Secolo XIX”, 11 ottobre 2007