le voci che
corrono
Linn Ullmann
Linn Ullmann: La
ragazza dallo scialle rosso. Guanda 2013
(l’editore) La sera
del suo settantacinquesimo compleanno, Jenny Brodal riprende a bere dopo
decenni di sobrietà. Sua figlia Siri, in un disperato tentativo di ricucire i
rapporti con lei – da sempre funestati dalla morte del fratellino di quattro
anni – le ha organizzato una festa nel giardino della grande casa di famiglia,
in un paesino costiero norvegese, festa a cui Jenny rifiuta di presenziare. Ma
i problemi famigliari di Siri vanno ben al di là del doloroso legame con la
madre. Suo marito Jon, romanziere in crisi d’ispirazione, finge di scrivere il
libro conclusivo di una trilogia, mentre in realtà occupa il tempo intrecciando
squallide relazioni con altre donne. La loro figlia maggiore è ribelle e
violenta, si fa espellere da scuola. Ma il vero dramma sopraggiunge quando la
baby-sitter assunta per occuparsi della minore durante l’estate scompare
misteriosamente proprio la sera della festa.
A questo punto il romanzo acquista la suspense di un thriller psicologico: con
la scomparsa della ragazza dallo scialle rosso il malessere che sempre più
insidia la vita famigliare di Siri e Jon esplode definitivamente.
§
(Alessandra Paganardi, “criticaletteraria.org”, 30 ottobre
2013) Linn
Ullmann e il film della memoria. Un
incontro assai denso quello con Linn Ullmann alla sede editoriale di Milano, in
occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo La ragazza dallo scialle
rosso(Guanda,2013). Il titolo originale norvegese è Det dyrebare, termine
intraducibile che significa “qualcosa d’inestimabile, che non può assolutamente
essere perso”. Ad andare perduta è proprio Mille, la diciannovenne dallo
scialle rosso, che scompare misteriosamente durante la festa di compleanno di
Jenny, nonna di Alma e Liv, due ragazzine alle quali la giovane faceva da baby
sitter. Da questa scomparsa, poi risolta tragicamente con il ritrovamento del
corpo due anni dopo (come anche dal party, che si trasforma per
l’anziana Jenny, festeggiata contumace, in un’occasione solitaria per
riprendere il vizio dell’alcoolismo) partono sequenze di eventi e ricordi: un
figlio di Jenny annegato accidentalmente nello stagno vicino a casa, mentre era
affidato alla sorella maggiore, Siri, divenuta poi madre di Alma e Liv; la
crescita difficile di Alma, i suoi maldestri tentativi di elaborare ciò che è
avvenuto prima della sua nascita, ma in qualche modo la riguarda e
l'ossessiona; i problemi coniugali di Siri e Jon, scrittore in crisi creativa;
le dimore alienate per far fronte alle crescenti difficoltà economiche;
giochi di bambini, laghi, foreste, momenti di panico e dolcezza, luoghi
cambiati nel tentativo di domare le inquietudini e ritrovare la creatività – se
non fosse che, come scriveva Seneca a Lucilio, «non loci, sed animus mutandus
est». La struttura del libro, denso di rimandi interni e di riferimenti rituali
e simbolici (come la strana caccia al tesoro alla rovescia, in cui i bambini
sotterrano il loro oggetto più caro e prezioso, il loro dyrebare, con
la clausola di non cercarlo mai più; o lo scampolo di stoffa che passa di
generazione in generazione come “mantello dell’invisibilità”) è ancora più
complessa di quanto non appaia in una prima lettura.
Come giustamente è stato rilevato nella prima parte dell’incontro, il
libro resiste alle definizioni troppo rigide: non semplice thriller
psicologico, né romanzo famigliare in senso stretto (benché vi si incontrino
tre generazioni con irrisolti problemi). E proprio dal tema della comunicazione
transgenerazionale sono partite le domande all’autrice, che ha risposto in
inglese, con garbo e intelligenza, attraverso un’efficiente interprete
trilingue.
D. Un tema del libro sembra essere l’incontro-scontro fra generazioni,
in particolare per quanto riguarda la difficoltà di comunicazione. Quanto pesa
questa problematica generazionale nell’economia del racconto?
R. Volevo scrivere un libro che parlasse di silenzi, di non detti, di
segreti e bugie. La scomparsa di una ragazza innesca una catena di ricordi, di
storie non solo accadute ma anche raccontate nel corso delle generazioni. I
punti di vista si moltiplicano, al punto che non c’è una storia sola: ciascuno
ha la propria, anzi è la propria storia.
D. Carofiglio ha affermato di recente che «scrivere è un corpo a
corpo con la parola». Quanto è devastante per lei scrivere?
R. Non dimentichiamo che una delle figure principali, Jon, è uno
scrittore in crisi creativa. Da questo fatto molto dipende, sia per lo
svolgimento delle vicende, sia per la struttura della narrazione. Mio padre
diceva che l’arte è per il 99 per cento disciplina e soltanto per l’un per
cento ispirazione. Se non la si esprime, essa diventa persecutoria. Scrivere è
un lavoro come un altro: bisogna esercitarlo ogni giorno in maniera sistematica
e rigorosa, come si fa con qualunque arte o artigianato. La scrittura, inoltre
– lo diceva sempre mio padre – richiede «occhio freddo, cuore caldo e grandi
orecchie»: non si scrive scavando dentro se stessi, ma al contrario aprendosi
al mondo, ascoltando. Altrimenti si rischia di cadere nel sentimentalismo e
nella banalità.
D. Colpisce la continuità, la fluidità di questa storia, che pure
è raccontata da punti di vista multipli. Sembra che la storia si snodi come un
nastro, per quanto intricato di anticipazioni e diflashback, e nulla
venga tagliato: quasi un “piano sequenza”. Quanto ha influito sulla sua
scrittura l’essere nata e cresciuta nel cinema?
R. Moltissimo, né poteva essere diversamente. Quando scrivo penso
sempre ai vari aspetti del set: la luce, la voce dei personaggi – me li
immagino muoversi nello spazio, parlare – e la posizione della telecamera, del
narratore: tanto più che questo libro non è soltanto una storia, è una storia
di storie raccontate. Non mi è mai interessata la narrativa tradizionale,
perché la vita non va in linea retta, ma procede a scatti, a ondate. Io non
penso le mie storie linearmente; le costruisco componendole a mosaico,
montandole, proprio come in un film.
D. A questo proposito, sembra molto importante nel libro il rapporto
fra tempo e memoria. E per questo bisogna pensare alla fine del libro, che non
riferiamo per lasciare un po’ di sorpresa…ma alla fine il libro sembra quasi,
raccontando una nuova storia, poter ricominciare.
R. Proprio così: le storie non sono mai lineari, si rinnovano
attraverso il racconto d’altri. Il tempo influenza la memoria, seleziona alcuni
episodi e ne ingigantisce altri: d’altra parte, la memoria cambia il tempo, lo
fa sembrare più o meno lontano. Il libro è tutto costruito su questa relazione.
D. Episodi simili a quelli di questo libro si trovano anche in un suo
libro precedente: il mantello dell’invisibilità e la madre che spinge i bambini
a stare all’aria aperta per almeno due ore al giorno. Che significato hanno
questi episodi, dato che sono ripetuti?
R. Il time out si riferisce a un ricordo d’infanzia:
ero spesso affidata a mia zia, quando i miei genitori erano completamente
assorbiti dal lavoro sul set. L’abitudine norvegese, che mia zia faceva
propria,era quella di tenere i bambini all’aria aperta da mezzogiorno alle due,
come Alma e il fratellino. Non ho ricordi spaventosi legati a questo fatto, a
parte la difficoltà di orientarmi nel tempo quando non sapevo ancora leggere le
ore; certo, in entrambi i libri questo comportamento degli adulti finisce per
avere conseguenze drammatiche sui bambini. Ma l’arte della scrittura è proprio
questo: prendere ricordi personali per trasformarli in qualcosa di
completamente diverso, che non appartiene più soltanto a noi. Anche il gioco
del seppellimento del tesoro nasce da un ricordo infantile. Sull’invisibilità,
poi, posso dire che è sempre stato un mio desiderio molto forte quello di
vedere senza essere vista…e lo è ancora!
D. C’è una grande attenzione all’adolescenza, all’età incompiuta.
R. L’adolescenza è un esempio, ma non è l’unico. Conosco persone di
ogni età e nessuna è totalmente risolta, neppure da adulta. Viviamo
nell’incompiutezza. Non mi interessa scrivere storie di cose perfettamente
riuscite, di persone completamente sagge (e neppure l’opposto, che è
altrettanto poco reale). I protagonisti di questo libro non sono né eroi né
malvagi: non lo è neppure il protagonista maschile più importante, Jon, pur con
tutte le sue debolezze. Il matrimonio fra lui e Siri non è perfetto: è un amore
incrinato da screzi, inganni e bugie, ma ha anche momenti di dolcezza. La vita
è fatta così, come la memoria: non è lineare.
D. I suoi romanzi sono sapientemente costruiti. Qual è il rapporto fra
mente e cuore, per uno scrittore?
R. Non esistono barriere fra mente e cuore. Chi scrive deve essere
capace di molta empatia, che significa disponibilità verso il mondo e
comprensione per gli altri (il "cuore", per così dire), ma nello
stesso tempo coltivare una certa freddezza di sguardo, per poter osservare
lucidamente tutto questo e raccontarlo (la "mente"). Occhio freddo e
cuore caldo, come dicevo prima. Senza lucidità non c’è scrittura e forse
neppure empatia, c’è soltanto un intimismo banale, che non mi interessa.
D. Che rapporto ha il titolo originale con la traduzione italiana?
R. Posto che non esiste una parola paragonabile al titolo norvegese (la
parola “tesoro”, per ovvie ragioni letterarie, non è utilizzabile) abbiamo
pensato a questa perifrasi per indicare Mille, la ragazza scomparsa, uccisa e
ritrovata morta due anni dopo. Mille non scompare una, ma parecchie volte: tutti
vogliono da lei qualcosa che non è, a partire dalla madre, che le scattava
fotografie in cui sognava una bambina forse diversa. Eppure questo personaggio,
apparentemente poco presente, è importantissimo perché fa da “domino”. A
partire dalla sua scomparsa - a volte casualmente, a volte come conseguenza
diretta - ciascuno estremizza un particolare lato di sé, che può essere anche
il lato più oscuro. E questo, in qualche modo, catalizza la narrazione.
D. Un libro in cui conta molto la scomparsa, la perdita, dunque.
R. Volevo scrivere un libro che parlasse anche di questo. Come si fa ad
andare avanti quando è accaduto l’irreparabile? Come ci si può perdonare quando
abbiamo perso il dyrebare? Più che il perdono, forse, conta
l’espiazione. Vivere nelle incrinature, con la memoria che continuamente dà
alle cose un senso diverso da prima. Le scompone e ricompone, in maniera mai
uguale a se stessa. Le trasforma e le fa ritornare.