Carlo Romano

Limonov e Carrère

Emmanuel Carrère: LIMONOV. Adelphi, 2012

 

Emmanuel Carrère si imbatte la prima volta nel nome di Eduard Limonov spulciando fra i libri che la madre, Heléne Carrère d'Encausse, riceveva. La signora, sovietologa accademica, ebbe un suo momento di celebrità planetaria al momento del crollo del sistema sovietico. Fu infatti fra i pochi studiosi che ne previdero l'implosione, ancorché le ragioni della sua previsione non fossero del tutto coincidenti con i fatti avvenuti e, piuttosto, pronosticassero le molteplici recrudescenze nazionaliste cui poco dopo si assistette davvero. Anche perché la mamma considera il libro "pornografico", cosa che in una certa chiave snobistica significa soprattutto "brutto", il giovane Carrère si entusiasma al racconto di questo strano poeta dissidente più stalinista che liberale, vagabondo a New York, eterosessuale che si fa inculare da un negro e finisce, per quel gioco di promiscuità che certe epoche favoriscono con annesse frequentazioni nel bel mondo intellettuale e modaiolo, amico-maggiordomo nella lussuosa casa di un riccone. Carrère e Limonov si sarebbero poi incontrati a Parigi e in seguito anche in Russia. Seguendone le gesta maturò l'idea - specialmente quando lo ritrovò leader nazionalbolscevico - di scriverne la biografia, e questa gli costò diversi anni di attenzione.

Gli inizi dell'attività letteraria di Emmanuel Carrère furono nella critica cinematografica (su "Positif", fra l'altro) e il primo libro che pubblicò fu una monografia su Werner Herzog (che poi avrebbe associato per un certo estetismo superomistico a Limonov). Il grande successo gli venne come romanziere avvinto dai misteri dell'identità con Baffi. Fu un successo ampiamente meritato. Quella dedicata a Limonov non è la prima biografia confezionata da Carrère. Anche il romanzo che dedicò a un criminale che sterminò la famiglia quando prese ad avvertire la possibilità di esser smascherato, avendo per una quindicina d'anni raccontato di esercitare la professione medica al servizio dell'ONU, si può tranquillamente annoverare, palesemente con analoghe inquietudini, fra le biografie. In ogni caso, diversi anni fa, con la stessa buona vena di Baffi, si occupò di Philip K. Dick. Ancora una volta non si sbaglia a ricondurre l'impulso narrativo alle preoccupazioni delle altre prove, e non deve destare alcuna meraviglia veder associati oggi il nome di uno scrittore di fantascienza che a Berkeley ebbe simpatie trotzchiste con quello di Limonov, al quale viceversa è caro lo slogan "Stalin, Berjia, Ghepeù", prova attrazione per "la grande guerra patriottica" e vigila con nostalgia sul mesto antieroico declino sovietico degli anni brezneviani.

Carrère ci fa assistere alla formazione di questo apparentemente insensato sentimento nostalgico seguendo Limonov nella sua infanzia e adolescenza passata in squallide periferie ukraine col papà sbirro e la mamma tosta, il lavoro in fabbrica, il legame con una donna più adulta e abbondante e le primissime prove letterarie in ambienti provinciali dove la sua autostima cresce tanto quanto in cuor suo diminuisce la considerazione verso le celebrità letterarie locali e non solo locali. Poi Mosca, poi New York, poi Parigi. A New York emigra con una nuova compagna, che sarà la prima di una piccola serie di belle donne alle quali, finché dura, rimarrà sostanzialmente fedele: una inaspettata monogamia in un personaggio costruito sul tipo dell'avventuriero. Il modello prenderà una più precisa fisionomia quando Limonov si immischia nei conflitti balcanici di fine millennio. Ogni guerra ha i suoi presunti buoni e i suoi presunti cattivi. In questo caso - ma ci sarebbe da discutere all'infinito - i cattivi sono i serbi. Ovvia la scelta di Limonov che si fa fotografare con quelli che passano per essere i macellai. Lo si vede anche in un filmato alle prese con una mitragliatrice.

In Russia si allea con Dugin, traduttore di Julius Evola e fascista dichiarato, per quanto in una chiave che unendo Stalin e Mussolini, il barone Unger delle armate bianche e Che Guevara, si riallaccia a quel "trentismo" francese che vaticinava l'avvento di un "fascismo immenso e rosso". Con Dugin – riecheggiando l'intesa dell'ultrasinistro bolscevico Radek con le schegge del conservatorismo sovversivo nella Germania che subiva l'occupazione francese nella Ruhr e la corrente comunista di stanza soprattutto ad Amburgo - fonda il partito nazionalbolscevico. Limonov cura in special modo la rivista "Limonka" sulla quale i pedanti editoriali di Dugin piombano come un corpo estraneo rispetto alla genuinità controculturale - impossibile definirla altrimenti - della redazione. Sarà questo ad attirare tanti giovani indifferenti al significato storico di figure e simboli più o meno minacciosi, ripresi e interpretati come un codice della provocazione, un modo in definitva non diverso da quello che i giovani occidentali avevano collaudato all'epoca del punk. Limonov, questo figlio riconoscente delle chiuse periferie sovietiche, viene infine abbandonato dal suo biografo in mistica contemplazione dei grandi spazi.

Nel descrivere questo percorso - e quanto bene lo può constatare ogni lettore - Carrère si sente in dovere di usare gli aggettivi del biasimo, ma si capisce fin troppo chiaramente che c'è non solo ammirazione per i libri ma anche - più confusa ed esteticamente tormentata - per le pose di Limonov. Tanto è vero che nelle pause in cui Carrère parla di se stesso, pare talvolta alludere a una personale via alla vita avventurosa, riduttivamente adattata a un'impropria dimensione piccolo-borghese da quella alto borghese della sua vera provenienza. “Fogli di Via”, marzo-luglio 2013