Chiara Italiano
Il “Libro
Linteo” di Enrica Salvaneschi e Silvio Endrighi
«Solitudine:
la tentazione più grande»: questa l’apertura di un canto che per natura rifugge
il vuoto, il silenzio, e che si riveste di voce, di persone, di personæ. È un
canto duale, quello di Silvio Endrighi e di Enrica Salvaneschi, binomio che già aveva intessuto una trama ne Il libro dell’ora e che prosegue un
viaggio periglioso nel Libro linteo (Book Editore, 5 volumi, 2009-2015). Un libro,
come si diceva, di personæ:
Lino Del Sabbia, Rosalba Griseldieri e Silvio Endrighi stesso, che da autore si cala talvolta nella
trama, assumendo il ruolo di maschera in questa opera in cinque volumi (‘cinque
canti’, se ci è consentito, fecondi e umbratili quanto -- si licet -- quelli ariosteschi).
Se
la solitudine è la tentazione più grande, almeno per Lino, il personaggio che
offre in un certo senso il materiale dell’opera intera, è però il controcanto
della solitudine il focus parallelo
del Libro Linteo: l’incontro con il dissimile, e l’irrespondance. Già dal primo volume (Il resto, 2009), i pensieri di Lino si
intersecano in una trama di voci che s’interrogano sul rapporto con l’altro, e
in prima istanza su quello tra dio-io: e, tra le voci, la più possente è quella
leopardiana, che torna e ritorna nei cinque volumi, facendosi canto a sé nel
terzo volume, di fatto «un libro di
Giacomo Leopardi e per Giacomo
Leopardi (da lui causato, gli appartiene quale esito di una lettura durata due
vite, e sempre imperfetta)» (Libro Linteo. Titolo III. Poëta peregrinus, 2011, p. 281). Un dialogo tra autori, tra
personaggi, e tra classici. Una risposta necessaria, ardua, solitaria ma non
sola, alla distruzione degli studi umanistici, alla difforme e implacabile
ondata dei tecnicismi “sillografici” che dissacrano,
disintegrano il pensiero. Non sola, dicevamo, perché dalle pagine emergono
vivissime le parole di altri, le immagini di altri: e la solitudine, tentazione
e terrore a un tempo (si veda ad esempio Coro
inaudito del Titolo IV. Efemeride,
2014), si sfarina in un coro dissimile e prezioso, spuma di conoscenza e di
poesia.
Come
exemplum di
questo procedere tessendo, di questo ‘canto all’arcolaio’ di cui Lino è emblema
(multiformità del mito, multiformità
dell’uso del tessuto stesso, da pagina a sudario), ci aggrappiamo «a un filo
d’erba» per «non cadere in cielo», in preda a una vertigine di pascoliana memoria. E il nostro «filo d’erba» è un termine:
liama. Gli
autori richiamano Cristina Bortolotti (Sisifo, in Munus. Dieci monologhi a una vuota cavea, Pentarco Edizioni, Torino 2001) che riutilizzò nella sua
opera la voce siciliana, derivata dal latino ligamen. E come Endrighi e Salvaneschi ricordano,
sulla base del Meyer-Lübke, «il corrispondente del
termine nel dialetto abruzzese significa “ginestra”: la biografia delle parole
è davvero il primo e vero romanzo mitico…» (Libro linteo.
Titolo V: Mai sempre, 2015, p. 82). Ancora Leopardi in filigrana, quasi
personaggio, quasi autore. Il termine, che già compare nel Linteo, si ritrova qui nella
prima prosa, una sorta di racconto breve che dà il titolo al volume. È la
storia di un incontro che si sfa nel non-incontro tra Mara e Stefano: dopo
essersi perduti di vista per molto tempo, i due si danno un appuntamento. È una
liama antica che riaffiora dopo molti anni, ma che
viene recisa con dolosa crudeltà perché Stefano, alla comparsa di Mara, dopo
averla attesa ai piedi di una scalinata cittadina, se ne va senza un saluto,
una parola, per non rivederla più. Nella lotta fra tropismo e autismo, diverse
sono le risposte dei due: «Era questa, forse, la versione più dura e propria
del fenomeno elementare: il rivolgersi all’altro, da un lato […]; dall’altro,
inutilmente tentata questa strada, rientrare in sé, nel proprio bozzolo ormai
logoro e ribadita prigione. Tale formula, formulazione quasi esatta, Mara aveva
cercato […] di alleviare, modificando il proprio autismo in tropismo negativo
[…]. La sua liama, il suo tropismo in negativo, era
l’arte: […]. Mara taceva al proposito, per natura e per scelta, ma sapeva bene
che tale liama non era stata riconosciuta, che non
era giunta a gettare il proprio nodo oltre la proiezione in parole della
rastremata sua figura» (pp. 20-21). Mara insomma si volge all’arte per sfuggire
all’autismo, per aprire un contatto filtrato con il mondo, con l’altro. Per
alzare una voce, per intesserla a quella di altri, ma sa di non essere stata
“riconosciuta”, sente che questa liama è in qualche
modo a perdere. E l’antica liama amicale è
irrimediabilmente perduta. Restano i poveri fiori di pitosforo, derivati da «un
seme di pece». Resta «il Sempre quale sfoglia del Mai» (p. 23).
Se
gli sguardi di Mara e di Stefano «sì: si reincontrarono»
(p. 18) per perdersi per sempre, il finissimo dipinto del Parmigianino, Madonna dal collo lungo, compone «un
triangolo ideale di sguardi che non
s’incontrano» (p. 30). E di fronte allo stesso quadro,
due giovani donne s’incontrano, si conoscono, e si sentono «legate da una sorta
di liama» (p. 41), misteriosamente. Ma non finisce
qui. Nell’incedere della narrazione, cadono le maschere, e finalmente
conosciamo i legami tra le personæ. Arriviamo a conoscere Lino, a sondare in profondità
i segreti di Rosalba, scrittrice delle superbe sestine che ritroviamo nel
volume secondo del Linteo
(Storie di Lino, pp. 45-56, 2009).
Scopriamo Mara, e Stefano, e M. Ma, saremmo tentati di dire, scopriamo Endrighi, e il Parmigianino col Gerolamo dalla pergamena
vuota. E la poetica che dà alla luce il Linteo, nei suoi
chiaroscurali ‘cinque canti’: «Ogni parola […] può essere personaggio e persona;
e, come succede in ogni racconto, le storie dei diversi personaggi si
intrecciano nella liama dell’evento, in una tensione
che oscilla tra la sinergia di tolleranza e l’istinto o l’istanza di
sopraffazione» (p. 54). La parola, con il suo carico ancestrale, la sua potenza
che perfora il tempo: ecco la poesia di Salvaneschi e
di Endrighi. Lasciamoci sedurre dalle parole di Lino,
di Rosalba, lasciamoci condurre per mano lungo gli impervi crinali della
parola, allora: per proseguire un colloquio necessario, per sottrarci al
silenzio marcescente del nulla.