Giuliano Galletta
Libereso Guglielmi
“Il
nuovo giardiniere era un ragazzo con i
capelli lunghi e una crocetta di stoffa in testa per tenerli fermi. Adesso
veniva su per il viale con l’innaffiatoio pieno, sporgendo l’altro braccio per
bilanciare il carico. Innaffiava le piante di nasturzio, piano piano, come se
versasse caffelatte: in terra, al piede delle piantine, si dilatava una macchia
scura, quando la macchia era grande e molle lui rialzava l’innaffiatoio e
passava a un’altra pianta. Il giardiniere doveva essere un bel mestiere perchè
si poteva fare tutte le cose con calma. Maria-nunziata lo stava guardando dalla
finestra della cucina. (...). - Ciao - disse il ragazzo-giardiniere. Aveva la
pelle marrone, sulla faccia, sul collo, sul petto: forse perché stava sempre
così, mezzo nudo. - Come ti chiami ? - disse Maria-nunziata. - Libereso - disse
il ragazzo-giardiniere. Maria-nunziata rideva e ripetè Libereso... Libereso...
che nome, Libereso. - È un nome in esperanto - disse lui - vuol dire libertà in
esperanto». Sono passati quasi settant’anni dalla scena descritta da Italo
Calvino nel suo racconto “Un pomeriggio. Adamo” e Libereso Guglielmi - “il
giardiniere di Calvino” - definizione inventata nel 1993 da Ippolito Pizzetti -
è qui davanti a me e non mi pare poi cambiato molto, nella sostanza, a dispetto
degli 84 anni. Mi porge un piccolo fiore giallo (nome scientifico: Oxalis pes-caprae): «Assaggialo, sa di aceto, bisogno
di condirla». se si mette nell’insalata non c’è neppure bisogno di
condirla>. In effetti, a ben guardare, Libereso non è esattamente uguale,
non ha l’innaffiatoio in mano ma probabilmente è solo perché piove. Piove a
dirotto, ma lui non sembra farci molto caso. Io e il fotografo Gianni Ansaldi
siamo dotati di giacche a vento e cappucci ma lui no, sfida l’acqua con la sua
folta chioma di capelli candidi e un vecchio maglione norvegese e tutto
l’insieme sembra assolutamente impermeabile.
«Sono abituato, anche nel deserto indiano quando di notte la
temperatura scendeva da 40 a zero gradi, io me la cavavo con questo
maglioncino», racconta. Di entrare in casa non se ne parla nemmeno. Libereso ci
ha accolto nel suo piccolo grande giardino selvaggio, nella sua giungla
personale incastonata nel cemento di Sanremo, senza alcun convenevole, come
vecchi amici, è entrato subito in argomento e l’argomento è il suo giardino, un
archivio della biodiversità, dove ogni ramo è una romanzo, ogni foglia una
lezione di botanica, di storia, di geografia, di gastronomia. Avendo dei dubbi
sul fatto che ogni giardino racchiuda una visione del mondo basta ascoltare
cinque minuti Libereso per fugarli tutti.
«L’altro giorno mio nipotino di
quattro anni stava scavando in giardino, distruggendo i bulbi che avevo appena
piantato; gli ho chiesto che faceva e mi ha risposto che voleva far prendere un
po’ d’aria ai vermi. L’ho lasciato fare perché era più interessante la sua
risposta dei miei bulbi. Poi mi ha portato a vedere una biscia che aveva catturato,
“nonno morde?” “no, solo una puntura di spillo”. Mi ha ricordato quando andavo
in giro con Mario Calvino, mi riempivo la camicia di bisce e le portavo a casa;
se le accarezzi un po’, non ti mordono più, capiscono che non seio un nemico>.
Proprio come nel racconto di Italo: «Quando tornò in cucina Libereso non c’era,
Né dentro, né sotto la finestra. Maria-nunziata si avvicinò all’acquaio. Allora
vide la sorpresa. Su ogni piatto messo ad asciugare c’era un ranocchio che
saltava, una biscia era arrotolata dentro una casseruola, c’era una zuppiera
piena di ramarri, e lumache bavose lasciavano scie incandescenti sulla
cristalleria. Nel catino pieno d’acqua nuotava il vecchio pesce rosso».
«Ho lavorato con Mario Calvino,
come come borsista della Stazione sperimentale di floricultura, che era nata
nel 1925 a Sanremo , da quando avevo 15 anni, nel 1940, fino alla sua morte nel
1951 ed ho vissuto fianco a fianco con Italo, che era più vecchio di me di soli
due anni e con Fiorenzo che poi diventerà un grande geologo. Da Mario Calvino
ho imparato tutto, anche come si legge un libro. Quando gli chiedevo qualche
consiglio lui tu mi rispondeva che tutti i libri sono buoni ma che
l’importante è quello che ci mettiamo dentro noi, della nostra vita, della
nostra esperienza. Da allora ho imparato a copiare, a prendere qua e là quello
che mi serve. E l’ho fatto anche con l’altro mio maestro il grande disegnatore
Antonio Rubino». Si perché Libereso è anche un ritrattista, di persone
oltreché di piante. La tecnica dell’acquerello botanico l’ha imparata in
Inghilterra dove ha lavorato per dieci anni nei giardini di Parker Bowles, lo
zio di Camilla, moglie di Carlo d’Inghilterra. «Gli inglesi hanno questa
tradizione del giardiniere-botanico, che conosce le classificazioni ma sa anche
fare un innesto, che unisce cioè teoria e pratica». Adesso Libereso ha messo un
pizzico della sua sapienza vegetale in un piccolo ma prezioso libretto, “Oltre
il giardino. Le ricette di Libereso Guglielmi”, a cura di Claudio Porchia,
(Socialmente). Partendo proprio dalle 400 varietà del suo giardino ha elaborato
un ricettario unico nel suo genere che è anche un micro-manuale di botanica.
«Siamo tutti un po’ abbelinati» sentenzia
«coltiviamo e mangiamo sempre le stesse cose e così ci perdiamo i sapori
meravigliosi di almeno trecento specie commestibili. Come l’Alstroemeria: si
mangiano i getti nuovi come asparagi o il Tropaeolum: i fiori si mettono
insalata, i boccioli si usano come capperi. Le foglie di Philadelphus hanno il
gusto di cetriolo, mentre quelle di Plantago major sembrano porcini». Il
viaggio nel giardino di Libereso potrebbe non finire mai: senti che profumo,
assaggia questa radice, quest’altra puoi metterla sul terrazzo. «Qui convivono
liberamente piante di tutto il mondo che non solo non si “combattono” ma
“collaborano”. Potrebbe accadere anche agli umani se non ci fossero tanti capi
pronti a ordinarci come dobbiamo vivere». E’ chiaro che Libereso non ha mai
dimenticato le sue radici. Quelle anarchiche, naturalmente.
(“Il Secolo XIX”, 11 marzo
2009)