Carlo
Luigi Lagomarsino
sarò liberista, ma…
Carnevali - Pellizzetti: LIBERISTA SARÀ LEI,
Codice, Torino 2010 | Wolfgang Sofsky: IN DIFESA DEL PRIVATO, Einadi,
Torino 2010 | Tibor R. Machan: GENEROSITÀ. VIRTÙ CIVILE, Liberilibri,
Macerata 2010 | Diego Fusaro; BENTORNATO MARX!, Bompiani, Milano 2009
"Il liberismo è in crisi, ma non è
morto" dice Roberto Petrini nella prefazione al pamphlet di Emilio
Carnevali e Pierfranco Pellizzetti Liberista sarà lei!. Sarebbe il caso
di dire, piuttosto, che non è mai esistito fuori dal puro esercizio
concettuale, che le stesse esperienze qui citate come "liberiste",
per quanto ne possano aver sostenuto segmenti di ispirazione, è del tutto
abusivo pensare che l'abbiano compiutamente incarnato. Nulla da eccepire, o quasi,
su quel che Carnevali e Pellizzetti constatano di Reagan e della Tatcher,
casomai andrebbe capito quel che non dicono dello "Stato sociale",
della cui crisi quelle esperienze sono state l'effetto più che la soluzione.
Sull'ordine di questa crisi paiono d'altronde essere oggi "tutti"
d'accordo, compresi i nostri due libellisti, e sono eventualmente gli spunti di
riforma a dividere. Quel che rimane fuori discussione non è tanto “il sociale”
quanto “lo Stato”.
Il liberalismo (il “liberismo” altro non è
che questo) è una teoria sulla limitazione dell’ingerenza statale che, nelle
sue conseguenze logiche, conduce all’anarchia. Carnevali e Pellizzetti se la
prendono con Friedrich Von Hayek, il quale non era per la verità così radicale
– concepiva perfino una qualche forma di pianificazione - e del tutto
arbitrariamente lo contrappongono a Luigi Einaudi e Ernesto Rossi. Ne danno
inoltre una lettura grottesca sul piano biografico, come quella di uno studioso
frustrato dal successo di Keynes che ha punte caratteriali di tale ripugnanza
da aver fatto di Bruno Leoni un utile e servile idiota della Mont Pelerin
Society. Nozick non se la cava meglio. Del resto la preoccupazione maggiore dei
due pamphlettisti sembra essere quella di stabilire ciò che è elegante e ciò
che non lo è (resta inteso che le loro scelte lo sono).
Al liberalismo si è sempre rimproverato di
aver pensato al mondo come se fosse nato con lui e le condizioni di partenza
fossero le stesse per tutti. Le cose non stavano proprio così? "La mano
invisibile" avrebbe provveduto affinché si aggiustassero spontaneamente.
Per equilibrare le circostanze, i liberali pensarono che un'altra mano, quella
della filantropia, potesse aggiungersi a quella "invisibile", poiché
si trova sempre qualcuno disposto per generosità o convenienza a interessarsi
degli svantaggiati, mentre nessuno accetta tranquillamente di subire la
solidarietà per legge attraverso il sistema coercitivo delle tasse (si vada,
per esempio, al libro di Machan). Le critiche a simili principi fideistici sono
in fin dei conti le stesse che si fanno alle utopie, solo che in quest'ultime
le società sono descritte solitamente come un meccanismo che ha nelle
inquadrate (per non dire militarizzate) posizioni dei gruppi e dei singoli i
suoi ingranaggi, mentre il liberalismo si fonda sui rapporti volontari.
Soffermandosi su questo aspetto, non mi sembra che si dia prova di disumanità,
si dimostra viceversa di avere a cuore la libertà.
L’ha fatto recentemente anche Wolfgang Sofsky
in un libriccino pubblicato da Einaudi. Sofsky insegna sociologia a Gottinga,
ma come sociologo - se corresse l'obbligo di chiamarlo così - appartiene a
quella tradizione, ben radicata in Germania, di un ammaestramento dove i dati
quantitativi sono perfettamente dissolti nel quadro delle idee, ciò per cui la
definizione di filosofo o antropologo avrebbe lo stesso effetto. A lui si deve,
a mio parere, uno dei maggiori studi dedicati alla violenza (Saggio sulla
Violenza, Einaudi, Torino 1998), quantomeno uno di quelli che ho letto con
maggiore coinvolgimento. Non tutto quel che in seguito ho scorso fra ciò che è
scaturito dalla sua penna mi ha coinvolto nella stessa misura o mi ha convinto
(e per quanto possa aver letto tutto ciò in traduzione, mi è sembrato di notare
uno iato stilistico fra l’uno e gli altri). Ciò nondimeno, l’accusa di
“banalità” che ho visto rivolgere in certe recensioni a In difesa del
Privato mi sono apparse a loro volta “banali”. È vero che la primissima
parte (“tracce”) è scritta con un fin troppo evidente occhio di riguardo nei
confronti di certo stereotipato “kafkismo”, ma rimane suggestiva e calzante – e
chissà che non sia tale proprio in ragione del suo essere stereotipata. I capitoli
successivi sono costruiti in modo meno "narrativo" ma sempre chiaro
(perciò "banale"?). Non si divaga mai e si passa piuttosto di
ragionamento in ragionamento (letteralmente) attraverso una concatenazione che
non teme il luogo comune o l'affermazione apodittica. si evochino le
flatulenze, il libero pensiero o la proprietà.
Della proprietà Sofsky attesta quel fattore
di integrazione fra le persone rivendicato dal liberalismo, non quello che
secondo una certa critica le estraneerebbe. Certo la definizione stessa di
"proprietà" è soggetta a riflessioni non da poco, soprattutto se si
pensa che il fattore di cui sopra è principalmente un rapporto giuridico, non
la semplice constatazione di un possesso. In quanto rapporto di questo tipo
essa ha dato vita a formule sempre più complesse che i liberali stessi hanno
contestato (i monopoli) come interferenze a un corretto svolgersi degli scambi
e delle acquisizioni. In qualche misura è lecito chiedersi se quello che
chiamiamo "sistema capitalista" è davvero la cornice appropriata del
liberalismo e del libero mercato.
L'idea che sovietismo, fascismo, roosveltismo
e sistemi definiti più o meno "liberali" siano aspetti diversi di un
unico sistema, "capitalistico" per l’appunto, appartiene comunque a
certa dissidenza che per semplicità si può definire genericamente socialista
(Bruno Rizzi) prima ancora che a Hayek, come vogliono far credere Carnevali e
Pellizzetti per screditarlo come "antidemocratico" in forza della sua
avversione al new deal. E la letteratura che genericamente viene definita
"socialista" è meno compatta su certi temi di come si possa pensare
rifacendosi alle versioni dominanti per interminabili decenni, tanto che la
caduta dei regimi di osservanza moscovita le ha scalfite solo superficialmente.
La ripresa lenta di studi su Marx, anche con libri che hanno ottenuto un certo
successo popolare - si pensi a quelli di Wheen e di Attali, e adesso a quello
del giovane Fusaro - suscita in fondo ancora sorpresa, come se ogni discorso in
merito si fosse chiuso definitivamente nel 1989. Che nelle nuove riflessioni ci
sia una evidente continuità con le passate dissidenze non è messo, mi pare, nel
giusto rilievo. Si preferisce pensare a interpretazioni totalmente nuove o
altrimenti spericolate e sensazionalistiche. Ripensare a certe tematiche
proprie di Marx fuori da un canone consolidato prima dalla socialdemocrazia e
poi dal comunismo sembra una inutile avventura più che la riscossa postuma di
ostinate minoranze e di Marx stesso. Così, per fare un solo esempio, un
pensatore che nulla ha mai concesso all'egualitarismo, si è ritrovato per un
secolo prigioniero dell'unico testo manipolabile in tal senso. Ciò che a Critica
al Programma di Gotha è accaduto col suddetto canone.