Claudio Dettorre

dal “regno della libertà” alla midcult delle libertà. Un ambiguo luogo comune

"La loro corruzione è talmente pericolosa, talmente penetrante che non hanno nessun altro scopo che accrescere la globalità delle loro malefatte pubblicando i loro orribili lavori; non sono più in grado di fare alcunché ma i loro scritti scellerati guideranno altri. E' proprio il conforto di questo pensiero che li consola dell'obbligo impostogli dalla morte di rinunciare a questa vita". D.A.F. de Sade (trovata in epigrafe al Cain's book di A. Trocchi)

Nel corso del 1972 smisi di considerarmi leninista (cioè maoista, ça va sans dire) e durante l'anno seguente per un breve tempo mi dichiarai anarchico (sebbene Stato e anarchia di Bakunin mi sembrasse poco più di uno scherzo e poco meno che illeggibile, mentre molto più divertente fu la lettura de Il diavolo al Pontelungo di Bacchelli); tuttavia entrando subito in conflitto con il paradossale (ma i paradossi amano l'anarchismo) ethos di quelli con cui allora mi incontravo, abbandonai presto qualsiasi etichetta (un “cane sciolto”, come si diceva a quel tempo), mentre cominciava a circolare quella, nebulosa nascente, dell'autonomia operaia (nel 1973 si concludeva l'esperienza politica di Potere operaio e, almeno per me, mi pare nell'inverno successivo, la lettura settimanale di Potere operaio del lunedì). Più autonomo di così, in effetti, non potevo essere (lasciato a me stesso, ai miei umori, a Cabalà, al Piccolo Hans e a disparate altre effimere pubblicazioni che uscivano come supplementi a Stampa alternativa). Lasciando perdere le varie e fondamentali esperienze di quel periodo, una volta doppiato il '77, ormai non mi consideravo più marxista da anni (ma i marxisti non avevano mai avuto il monopolio della rivoluzione e comunque non avevo smesso di leggere gli antileninisti tra le due guerre e poi Jacques Camatte e Amadeo Bordiga e Rosa Luxemburg e Auguste Blanqui e Charles Fourier e Tommaso Moro ovvero Thomas More e numerosi e vari altri). Durante il biennio successivo, durante il quale si consumò la guerra tra terrorismo e controterrorismo, continuai come prima a passare il tempo, e tra numerosi e diversi personaggi e tra le altre cose, mi ritrovai sotto gli occhi (nonostante la positiva disposizione d'animo... ma appena superati i vent'anni non si sanno ancora molte cose, mentre ora sfortunatamente si tende a dimenticarle) il Tramonto dell'ideologia (1980) di Lucio Colletti, che seguiva una celebre Intervista politico-filosofica del 1974. Dei tre saggi che componevano il volume, il primo e il terzo, in particolare, demolivano alcuni cardini dell'ideologia marxista. Colletti eseguiva un'operazione necessaria di divulgazione, commentando argomentazioni altrui e aggiungendone di proprie (come nel saggio su Kelsen e la critica del marxismo), volgarizzando per una platea più ampia di quella dei giuristi e dei laureandi alcune patenti contraddizioni del pensiero marxiano. Egli sosteneva che esse scaturivano dalla giustapposizione di due concezioni divergenti e incomponibili: una scientifica ed un'altra filosofico-ideologica. “Lucio Colletti continua ad essermi umanamente simpatico, berlusconiano o meno, perché ho un debole per le persone creative, originali ed intelligenti, che mi hanno fatto pensare, anche solo per respingerle”, così scriveva Costanzo Preve in un testo (in rete) su Colletti e Galvano Della Volpe. Mauro Visentin, laureatosi con Colletti nel 1976, gli rivolge un Ricordo tra testimonianza e bilancio critico (anch'esso on line), in cui non può fare a meno di notare che la critica dell'ideologia marxista aveva indotto Colletti ad una acritica idealizzazione della scienza (testimoniata dall'ultimo suo scritto di una qualche rilevanza: la Fine della filosofia, del 1996). Il crollo dell'ideologia marxista, nel frattempo generalizzatosi nel dissolversi degli stati socialisti, aveva rappresentato per Colletti “la perdita irrevocabile dell'unico oggetto sul quale avesse mai avuto qualcosa di serio ed importante da dire” (infine anche il becchino viene seppellito). In Francia Christian Jambet e Guy Lardreau nel 1976 pubblicavano, presso Grasset, Ontologie de la révolution 1: l'ange: pour une cynégétique du semblant (“L'angelo: ontologia della rivoluzione: per una cinegetica del fantasma”). Nel 1977, di Bernard-Henri Levy, presso lo stesso editore, usciva La Barbarie à visage humain (“La barbarie dal volto umano”) e di André Glucksmann, Les Maîtres penseurs (“I padroni del pensiero”). Di quest'ultimo era stato pubblicato già nel 1975, presso Seuil, La Cuisinière et le Mangeur d'Hommes, réflexions sur L'état, le marxisme et les camps de concentration (“La cuoca e il mangia-uomini: sui rapporti tra Stato, marxismo e campi di concentramento”). Dunque, mentre i nuovi filosofi (nouveaux philosophes) imperversavano sulla scena culturale e infiammavano la discussione politica in Occidente (e dunque anche in Italia), Colletti, che li aveva preceduti, sia pure di poco, faceva ancora la sua parte nella recita. Dei nuovi filosofi, il più interessante mi pareva Glucksmann, per via dei suoi trascorsi maoisti (ovviamente pure Colletti era stato per un certo tempo una firma dell'estrema sinistra, una delle più note - poi quando i transfughi aumentarono a dismisura il cercare di capire da dove provenisse questo o quello perse qualsiasi significato). Ad ogni modo non seguii con attenzione le successive peripezie dei neuovi filosofi, già a partire da Le Testament de Dieu e all'apologia di Reagan e di Israele. La critica che aveva loro rivolto Gilles Deleuze nel 1977 mi era sembrata convincente (anche troppo, forse, dato che la applicai, ipso facto, agli stessi autori dell'Antiedipo e di Rizoma e a Jean-François Lyotard che aveva scritto A partire da Marx e Freud e la perversa e anomala Economia libidinale, prima di cogliere fama universale con La condizione postmoderna). Alla domanda: “Que penses-tu des nouveaux philosophes?” Deleuze aveva risposto: “Je crois que leur pensée est nulle. Je vois deux raisons possibles à cette nullité. D'abord ils procèdent par gros concepts, aussi gros que des dents creuses, LA loi, LE pouvoir, LE maître, LE monde, LA rébellion, LA foi, etc. Ils peuvent faire ainsi des mélanges grotesques, des dualismes sommaires, la loi et le rebelle, le pouvoir et l'ange. En même temps, plus le contenu de pensée est faible, plus le penseur prend d'importance, plus le sujet d'énonciation se donne de l'importance par rapport aux énoncés vides (“moi, en tant que lucide et courageux, je vous dis..., moi, en tant que soldat du Christ..., moi, de la génération perdue..., nous, en tant que nous avons fait mai 68...”).”

Di sicuro in quel periodo Pol Pot fece il possibile per spegnere le residue velleità di "cambiare il mondo" dei militanti occidentali e disgustare tutti gli altri, mentre i media denunciavano all'opinione pubblica sempre più smarrita “il dramma” dei boat-people vietnamiti. Con la guerra sino-vietnamita del 1979 ebbi la netta sensazione (ma credo che, più o meno, la provarono quasi tutti) che si era toccato il fondo, ma in effetti nel natale di quell'anno un "limitato contingente" dell'Armata rossa fu inviato in Afghanistan per occupare il paese (la guerra durò dieci anni e pochi mesi dopo il ritiro delle truppe sovietiche si dissolse l'Unione sovietica).

Ora bisogna aprire una parentesi: Socialisme ou Barbarie (la cosiddetta Juniusbroschüre del 1915 di Rosa Luxemburg contiene la nota espressione "socialismo o barbarie", indicante che nel futuro gli unici sbocchi possibili per l'umanità sarebbero stati l'instaurazione della società socialista o la barbarie) fu un'organizzazione rivoluzionaria francese sorta da una scissione del Parti Communiste Internationaliste (cioè trotzkista) attiva dal 1949 e che si sciolse nel 1967. Il nome dell'organizzazione era interessante per l'alternativa radicale che annunciava (se non ero più marxista e tantomeno credevo al socialismo, non restava dell'antico dilemma altro che la barbarie? e quale forma avrebbe preso questa barbarie?). Il gruppo fu profondamente influenzato da Castoriadis (pseudonimi utilizzati: Chaulieu, Cardan, soprattutto ed in ordine cronologico, ma anche Delvaux e Noiraud) che lo fondò assieme a Claude Lefort (Montal). Fu coinvolto anche Guy Debord che vi partecipò nel 1960 pur rimanendo situazionista (ebbe luogo solo una collaborazione fugace o ci fu un'adesione formale all'organizzazione? si può sfuggire all'interrogativo di un Guy Debord, militant social-barbare come si chiedeva Christophe Boursellier in Vie et mort de Guy Debord). Ciò che rimane agli atti è un testo scritto con Daniel Blanchard, alias P. Canjuers, ovvero i Préliminaires pour une définition de l’unité du programme révolutionnaire oltre alla collaborazione di Blanchard nella realizzazione del cortometraggio Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps di Debord. Va segnalato inoltre che proprio in quell'anno si manifestò un'anti-tendenza (anti-tendance) all'interno di Socialisme ou barbarie guidata dal già citato Lyotard (Laborde), che sfociò nella scissione del 1963, da cui nacque il gruppo che prese il nome di Pouvoir Ouvrier dal titolo di un mensile che nel 1959 affiancò la testata principale di Socialisme ou barbarie, e che si esaurì infine nel 1969.

Dilemmi dissimili (ma non sempre) erano contenuti nei titoli di altri libri che leggevo in quel periodo: per esempio Terrorismo o rivoluzione ("Terrorisme ou révolution", ovvero la prefazione a Pour la révolution di Ernest Courderoy) di Raoul Vaneigem, La vita contro la morte di Norman O. Brown, Eros e civiltà di Marcuse, L'io e l'es di Freud, La letteratura e il male di Bataille, L'essere e il nulla di Sartre, L'io diviso di Laing, Lautréamont e Sade di Blanchot, Il crudo e il cotto di Lévi-Strauss, Le parole e le cose di Foucault, Justine ou les Malheurs de la vertu e Histoire de Juliette, ou les Prospérités du vice di Sade, Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer ed ovviamente Aut-Aut ("Enten-Eller") di Victor Eremita alias Søren Kierkegaard più tutti quelli che non ricordo adesso, perché la memoria è sempre più dispettosa. Erano letture disordinate (ma non disorganiche, perché si collocavano nel rovesciamento della prospettiva dominante, come sosteneva Vaneigem), tralvolta incomplete (ma non inconcludenti giacché erano inserite in un quadro più largo). Devo aggiungere ai titoli binari, a parte quelli che ho dimenticato e quelli che non rientrano nella presente classificazione, anche Uomini e no di Vittorini, Uno, nessuno e centomila di Pirandello (trovato l'intruso!), Dalla causa alla cosa della rivoluzione di Simonetti, Lavoro dell'inconscio e comunismo di Sergio Finzi ed infine Apocalisse e rivoluzione di Giorgio Cesarano e Gianni Collu. Sulle ragioni editoriali di quest'ultimo pamphlet gli autori avevano scritto di essere stati sollecitati dalla pubblicazione de I limiti dello sviluppo ("The Limits to Growth"), un rapporto commissionato dal Club di Roma (fondato nel 1968 da Aurelio Peccei) al MIT (Massachusetts Institute of Technology con sede a Cambridge nel Massachusetts - dove sennò?). In sostanza gli studiosi dichiaravano che se il tasso di crescita della popolazione, dell'industrializzazione, dell'inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse fosse continuato inalterato, i limiti dello sviluppo sul nostro pianeta sarebbero stati raggiunti in un momento imprecisato del secolo ventunesimo. Il risultato più probabile sarebbe stato un declino improvviso ed incontrollabile della popolazione e della capacità industriale. A questo primo rapporto sono seguiti dei sequel; nell'aggiornamento in occasione del trentesimo anniversario (The 30-Year Update del 2004), la prima versione è stata implementata sommando l'indagine sull'esaurimento delle risorse a quella sul degrado dell'ambiente, giacché se la Terra non è infinita né come serbatoio di risorse né come discarica di rifiuti, la crescita della popolazione e della produzione industriale, ovviamente, non fanno che incrementare il consumo delle risorse e l'inquinamento. L'analisi prevede un numero di scenari catastrofisti sufficiente a formare una squadra di calcio, ma giudicati "ottimisti" dagli autori. Nel 2008 l'australiano Graham Turner, del Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (CSIRO), pubblicava una ricerca in cui, confrontando i dati degli ultimi trent'anni con le previsioni effettuate nel 1972, giungeva alla conclusione che i mutamenti avvenuti nelle produzioni industriale e agricola, nella popolazione e nell'inquinamento erano effettivamente coerenti con le previsioni del 1972 di un collasso economico nel corso del XXI secolo. L'aggiornamento del rapporto rafforzava la necessità di una diversa gestione delle risorse e dell'ambiente rilevando come la cosiddetta impronta ecologica avesse cominciato a superare intorno al 1980 la capacità di carico del pianeta ed attualmente la oltrepassi del 20% (dati riportati da Kestorya). Mi pare ragionevole riconoscere che negli oltre quarant'anni trascorsi dalla pubblicazione del primo rapporto non è stato fatto un granché. Che le speranze non circolino più come qualche decennio fa lo si nota rileggendo per esempio un libro come The turning point (“Il punto di svolta”) di Fritjof Capra, già autore del celebre Il tao della fisica. Il punto di svolta (tradotto due anni dopo in italiano) è del 1982 e nella quarta ed ultima parte della trattazione lo scrittore discute in modo particolareggiato (così si esprime) della “nuova visione della realtà”, cioè “l'emergente concezione sistemica della vita, della mente, della coscienza e dell'evoluzione; il corrispondente approccio olistico alla salute e alla guarigione; l'integrazione di approcci occidentali e orientali alla psicologia e alla psicoterapia; un nuovo schema di riferimento concettuale per l'economia e la tecnologia; e una prospettiva ecologica e femminista che è spirituale nella sua natura ultima e che condurrà a mutamenti profondi nelle nostre strutture mentali e politiche”. Il titolo ottimista che presiede all'ultimo capitolo del volume è “Il passaggio all'epoca solare” (addirittura). In anni più recenti il tono dei futurologi cambia decisamente; per esempio, Serge Latouche in Pour sortir de la société de consommation (“Come si esce dalla società dei consumi”) del 2010, ritiene che la catastrofe sia inevitabile: “Ormai il problema non è più quello di evitare la catastrofe, ma solo di limitarla, e soprattutto di domandarsi come gestirla”. Ma anche questa ipotesi forse (o senza forse) è troppo ottimistica.

Per chiudere la digressione, poiché un carattere non si improvvisa, confesso che, tra il socialismo e la barbarie, ho sempre creduto, e tuttora ne sono convinto, che la barbarie sarebbe stata (e sarà) un evento non tanto probabile quanto sicuro, mentre il socialismo (quello “reale”) era già abbastanza barbaro (“la barbarie dal volto umano” già citata, appunto) da non aver bisogno di promettere scenari ancora più sinistri se fosse sopravvissuto agli anni Ottanta-Novanta. Semmai nel corso del tempo è mutata l'idea di barbarie che se ne facevano gli intellettuali (da un inferno burocratico a quella catastrofica di un'apocalisse ecologica propria di una generazione successiva). Il cinema e la letteratura negli anni hanno volgarizzato (cioè diffuso nella lingua comune parlata dal pubblico planetario) le possibili forme della catastrofe (e non solo, ovviamente - mi tornano in mente, di quegli anni lontani, due volumi apparsi nella stessa collana "Lo spettacolo e la sua scena" di Arcana: quello di Carlo Romano, Lo spettacolo e i suoi prodigi, che si presentava come un'antologia dei revival e quello di Enzo Ungari, Immagine del disastro su cinema, shock e tabù). Cormac McCarthy con La strada ha voluto incrociare il fatale luogo comune di una catastrofe "definitiva" (l'aggettivo tra virgolette appartiene invece a Giorgio Manganelli e alla sua Palude; di costui è una frase che fa giustizia del romanzo di McCarthy, senza averne la minima intenzione: "L'inferno ha una tendenza urbanistica. L'abbiamo sempre saputo, c'è una mappa dell'inferno, si può fare, ci sono delle strade, c'è una toponomastica, senza dubbio ci sono dei vigili", mentre "nella nostra cultura noi non riusciamo a pensare al paradiso, per il momento, se non come una variante particolarmente luminosa del nulla"). Bruno Rizzi e i seguaci di Castoriadis non la pensavano come gli enciclopedisti delle nocività; mentre Debord, già nel 1971, nell'articolo Il pianeta malato, destinato ad un numero mai uscito dell'Internationale Situationniste scriveva che "una società sempre più malata, ma sempre più potente, ha ricreato il mondo come ambiente e scenario della sua malattia, come pianeta malato", anticipando la svolta barbarista e catastrofista del pensiero exrivoluzionario come frutto della naturale conseguenza del collasso ambientale del pianeta.

Tuttavia prima e meglio di Debord la malattia del pianeta aveva attratto famose descrizioni letterarie: quanto è più brillante (nel senso di campo minato, e minato è tutto il romanzo; perché chi può credere letteralmente a ciò che racconta Zeno?) il finale pirotecnico e galattico della Coscienza di Zeno (“Forse attraverso una catastrofe prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo inventerà un esplosivo incomparabile e un altro uomo più malato ruberà tale esplosivo e si arrampicherà al centro della Terra, dove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udirà e la Terra, ritornata alla sua forma nebulosa, errerà nei cieli, priva di parassiti e di malattie”)? Ma innumerevoli altri poeti e scrittori, tra le cui schiere mi vengono in mente Bierce, Holderlin, Shiel, Blake, Büchner, Nodier, de Quincey, Abbott, Borel, Schwob, Kubin, Roussel, Trakl, Carrington, Benn, Huxley, Lovecraft, Baudelaire, Vaché, Cioran, Walser, Daumal, Cortazar, Dick, Michaux, Beckett (e quanti altri ne tralascio senza un'apparente ragione! e pressoché l'intera fantascienza ed inoltre ...), avevano anticipato le tendenze fondamentali del nostro tempo ("non si può avanzare che retrocedendo" come afferma il buon senso artistico). Devo aggiungere che, trascorrendo vieppiù il tempo, della catastrofe (imminente o no e pure che accada realmente o no...) non mi importa proprio nulla (per una questione di sincerità! di nient'altro che la verità - d'altronde si dice della letteratura che "quando getta via la propria anima trova il proprio destino"). I pensieri se ne vanno altrove, a frequentare altri finali di partita alla maniera del congedo de Il deserto dei Tartari di Buzzati, quando Giovanni Drogo di essi cessa di rammaricarsi, in altro duello gettato (“La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna. Farà in tempo, Drogo, a vederla, o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d'aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei [lei chi? ma è ovvio! Chi altro può essere?] che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po' il busto, si assesta con una mano il colletto dell'uniforme, dà ancora uno sguardo fuori dalla finestra, una brevissima occhiata, per l'ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.”). Nei depositi della letteratura si trova, a cercarla, (per la critica radicale dei topi) la critica (a futura memoria) delle lacune storiche della critica sociale. Da ragazzo scoprii che il Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni (“Traité de savoir-vivre à l'usage des jeunes générations” del 1967) suggeriva numerosi nomi per ancor più numerose letture (una citazione, valida al contrario ma non solo: “Da quando esistono gli uomini, e questi leggono Lautréamont, tutto è stato detto e pochi sono giunti a trarne beneficio. Siccome le nostre conoscenze sono in sé banali, possono solo avvantaggiare gli spiriti che non lo sono”), come se non fosse altro che un approfondimento dell'Antologia dello humour nero (“Anthologie de l'humour noir” del 1940) di André Breton. Così per me il disfarsi del marxismo fu anche la conseguenza di una serie di letture. La cospirazione di Paul Nizan fu una di quelle (ma anche altri suoi romanzi, per un non raro effetto non previsto, come Antoine Bloyé, Il cavallo di Troia e il ben noto Aden Arabia). Curiosamente (bisogna leggere il romanzo...) proprio dalla Cospirazione fu tratto il nome di un personaggio, Bernard Rosenthal, che fu usato per firmare alcuni opuscoli (mi vengono in mente i Quaderni della Fronda, ma se non ricordo male pure qualche pubblicazione di Arcana e di Salamandra - tuttavia per maggiori chiarimenti rimando alla prefazione di Carlo Romano ad Agguati di Simonetti) di mano principalmente se non esclusivamente di Gianni-Emilio Simonetti, e la curiosità è data inoltre dal fatto che se da un lato questi materiali erano in parte ispirati ai temi e ai toni della rivista francese Errata, dall'altro l'acronimo del nom de plume dell'autore dava la sigla della maggiore organizzazione armata clandestina del periodo. Nel 1976 usciva per Adelphi, Il catechismo del rivoluzionario di Michael Confino. Il testo affronta l’affare Necaev, che la casa editrice definisce uno degli episodi più misteriosi e tragici, più ricchi di conseguenze della storia del movimento rivoluzionario russo. “Tutti i problemi del terrorismo, della lotta clandestina, della disciplina di gruppo, del tradimento, delle mani sporche, della violenza necessaria contro i propri compagni, problemi che sarebbero poi ricomparsi sempre più spesso fino a oggi, appaiono qui in una luce cruda e còlti, per così dire, alla loro scaturigine, cioè nella vicenda dei due grandi personaggi che in una certa misura ‘inventarono’ – o per lo meno rielaborarono in modo decisivo – quei problemi” (i due personaggi sono “l'anziano capo dell'anarchismo” Bakunin e “un giovane di ventidue anni, Sergej Necaev, che arrivava dalla Russia accompagnato da voci disparate, secondo cui, volta a volta, era il più radicale e puro dei nuovi rivoluzionari o un abietto mistificatore pronto a qualsiasi bassezza”), così si legge nella nota che accompagna il volume. Ritornando a Nizan, Aragon volle colpirlo raffigurandolo nei panni di Orfilat (nel nome risuona qualche accenno agli ofidi più che a Maldoror) in Les Communistes (1949-1951), ma dovette pentirsi perché decise di sopprimere infine il personaggio nell'edizione del 1966 (c'è qualcuno che sostiene che non necessariamente Orfilat dovesse rappresentare proprio Nizan); lo stesso Aragon che nel 1982 riscoprii come autore di Le paysan de Paris e (con uno pseudonimo) di Le con d'Irène (rispettivamente del 1926 e 1927, che fu l'anno in cui ufficialmente entrò nel partito comunista francese). Ma anche per Sartre "les anticommunistes sont des chiens". Nel 1976 Feltrinelli pubblicava (e leggevo) la traduzione di Odile di Queneau (del 1937); un romanzo in cui si ironizzava sul guru del surrealismo, e quindi demistificava l'inner circle del più celebre gruppo d'avanguardia artistica e politica (in quel momento leggevo anche Il tempo degli assassini di Henry Miller che parlava di Rimbaud e L'uomo in bilico di Saul Bellow). Camus e Sartre mi richiamano alla mente un tipo che conoscevo e che manifestava una scoperta vocazione suicida, il quale più da ubriaco che no ne parlava (de Lo straniero, La peste, Il mito di Sisifo, L'uomo in rivolta, La morte felice del primo e de Il muro, La nausea, A porte chiuse, Le mani sporche del secondo). A Camus collego una frase che non ricordo da quale opera provenga: "Una persona che conoscevo divideva gli esseri umani in tre categorie: quelli che preferiscono non avere niente da nascondere piuttosto che essere obbligati a mentire, quelli che preferiscono mentire che non aver niente da nascondere e gli ultimi quelli che amano sia mentire sia nascondere". Senza i libri di Aleksandr Solženicyn forse non ci sarebbero stati i Nuovi filosofi francesi, e dunque si devono ricordare Una giornata di Ivan Denisovič, Divisione Cancro, Il primo cerchio e Arcipelago Gulag (rammento di aver riletto Ivan Denisovič fino a quando furono pubblicati i Racconti di Kolyma e Višera di Šalamov). I nuovi filosofi avrebbero potuto ricevere ispirazione anche da Primo Levi, i cui libri, al di là delle mode culturali e delle ingiunzioni scolastiche, mi sembrano ancora onesti e scrupolosi (qualità che non sono poi così frequenti...). Ricordo George Orwell per il suo scritto più bello, Omaggio alla Catalogna (che si dice antistalinista per questioni di savoir faire). 1984 (che associo, con meno spiccata simpatia, al romanzo di Bradbury Fahrenheit 451, forse ancora più celebre, cioè venduto, tuttavia meno dark e meno romantico), era palesemente ispirato dalla science fiction di H. G. Wells; più didascalica (ma non da dispiacersene eccessivamente dicono alcuni, ma non sono tra quelli) la favola de La fattoria degli animali. Al genere appartengono Brave new world ( e Brave new world revisited) di Huxley (a parte metterei The Doors of Perception e Heaven and Hell). Prima dei celebrati libri di Huxley (1932 e 1958) era apparso Noi (1919-21) di Evgenij Zamyatin (in edizioni successive traslitterato, forse più correttamente, in Zamjatin), tradotto in italiano da Lo Gatto per Feltrinelli. Il maestro e Margherita di Bulgakov (e Cuore di cane, ma entrambi mi stancarono: effetto dei titoli? Oppure perché proprio in quel periodo leggevo il Faust tradotto da Franco Fortini e il primo Doctor Faustus, cioè quello di Marlowe ed infine quello di Thomas Mann con la collaborazione tecnica musicale di Adorno) mi richiama alla mente Die Blendung (“Auto da fé”) di Canetti, che lessi poco dopo o poco prima e quindi L'insostenibile leggerezza dell'essere, L'arte del romanzo e I testamenti traditi di Kundera (ma queste ultime opere sono successive al periodo in questione). Victor Serge aveva scritto in Da Lenin a Stalin che “viene spesso detto che il germe dello stalinismo era presente nel bolscevismo fin dal suo inizio. Non ho obiezioni. Soltanto aggiungo che il bolscevismo conteneva anche molti altri germi, e coloro che vissero gli entusiasmi dei primi anni della prima vittoriosa rivoluzione socialista non dovrebbero dimenticarlo”. Da ragazzo condividevo questa considerazione, ora non so più come intendere esattamente la parola “germi”. Rammento inoltre la lettura delle Memorie di un rivoluzionario dal 1901 al 1941 che allora proseguii insieme ai Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed. Curiosamente, insieme all'Angelo di Jambet e Lardreau, lessi Humanisme et terreur (“Umanesimo e terrore”) di Merleau-Ponty, scritto nel 1947, in cui il filosofo francese difendeva in qualche modo le ragioni di Stalin nei processi politici moscoviti e bersagliava il romanzo di Koestler Buio a mezzogiorno ("Darkness at noon" in originale, mentre in traduzione francese diventa "Le zéro et l'infini") e il suo protagonista "Rubashov" o "Rubasciov" (il romanzo prendeva spunto dal processo a Bucharin), prima di allontanarsi egli stesso, a sua volta, dal marxismo (e da Sartre) più o meno alla fine del 1952. Merleau-Ponty nella prefazione alla ristampa del suo libro si lamentò di non essere stato compreso da nessuno, neppure dagli stessi comunisti che forse non avevano apprezzato abbastanza l'impostazione filosofica della difesa dei processi di Mosca. Jacques Bolo, in un articolo on line su Merleau-Ponty, conclude dicendo che "la lecture de ce livre permet de souligner un des aspects du travail académique, de produire des ouvrages de circonstance destinés aux poubelles de l'histoire".

Va detto che ancora vari altri libri completarono quella sorta di educazione sentimentale che mi spingeva scontrarmi con la dottrina marxista e comunista nel periodo tra la fine dei Settanta e gli inizi degli Ottanta, come quelli di Vasilij Grossmann (Vita e destino nell'edizione Jaca book e poi in quella Adelphi, insieme a Tutto scorre..., Il bene sia con voi! e L'inferno di Treblinka, che però sono stati editi più di recente, e quindi non dovrei menzionare), L'armata a cavallo e altri racconti di Isaak Babel', L'amante dell'Orsa maggiore di Piasecki, il già citato Buio a mezzogiorno di Koestler, Il profeta muto di Joseph Roth, Il cielo diviso di Christa Wolf, Cime abissali di Zinov'ev ("Da quando era stata adottata la legge che regolava i decessi, non v’era stato un solo caso di persona che – avendo dichiarato il proprio sincero desiderio di prendere coscienza dell’ineluttabilità della propria morte – non si fosse presentata, all’ora stabilita, al proprio crematorio".) e pure i i romanzi di Greene, Ambler, Le Carré, Hassel ecc. Del tutto a parte includerei un diamante grezzo come Il partigiano Johnny (ma anche Una questione privata, I ventitré giorni della città di Alba, Primavera di bellezza) di Beppe Fenoglio che rappresenta senz'altro l'esito più alto ed epico della narrativa italiana sulla Resistenza ed è uno dei libri più belli del suo secolo (nello stesso periodo leggevo la traduzione di Chiodi, insegnante al liceo di Fenoglio, dei Sentieri interrotti di Heidegger). Il giovane puritano Milton, protagonista del Partigiano Johnny, mi richiamò in mente, quella volta, due libri che avevo studiato da poco per un esame universitario, ovvero On Liberty ("Sulla libertà") di John Stuart Mill e La democrazia in America di Alexis de Tocqueville, il quale racchiudeva disparati quanto ottimi suggerimenti (eccone uno che non c'entra niente: “L'incredulità è un accidente; la fede sola è lo stato permanente dell'umanità”). Oggi invece, nel luogo dove mi trovo, posso sfogliare le pagine illustrate de L’invention de la liberté di Jean Starobinski. Un amico (che si suicidò poco dopo) aveva sciupato a forza di sottolineature e annotazioni due copie di Krisis di Cacciari, una dopo l'altra (in quel passaggio di decennio Cacciari pubblicava anche altri testi come Pensiero negativo e razionalizzazione, Walter Rathemau e il suo ambiente, Crucialità del tempo, Dialettica e critica del politico e Dallo Steinhof, anch'essi con la stessa intensità letti, rielaborati e consumati da questo mio amico). Nel 1982 uscì nuovamente in italiano Storia e utopia di Cioran (il titolo era stato pubblicato dal Borghese nel 1969) dopo l'interessante uscita di Squartamento. A questo scrittore appartiene una frase tratta da un'intervista al suo traduttore italiano Mario Andrea Rigoni: “Ricordo un'occasione in cui per tre ore ho passeggiato nel Lussemburgo con un ingegnere che voleva suicidarsi. Alla fine l'ho convinto a non farlo. Gli ho detto che l'importante era aver concepito l'idea, sapersi libero. Credo che l'idea del suicidio sia l'unica cosa che rende sopportabile la vita, ma bisogna saperla sfruttare, non affrettarsi a tirare le conseguenze. È un'idea molto utile: dovrebbero farci delle lezioni nelle scuole!”. Tra il 1981 e il 1985 uscirono in Italia La mente prigioniera e La mia Europa di Czesław Miłosz, dopo che nel 1980 gli era stato attribuito il premio Nobel per la letteratura. Nel 1987 questo premio fu consegnato al poeta Josif Brodskij, protagonista durante un processo in epoca sovietica del seguente dialogo:

“Giudice: Qual è la tua professione?
Brodskij: Traduttore e poeta.
Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti?
Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano?”

Il rumore del tempo - Feodosia - Il francobollo egiziano sono titoli di opere di Mandel'štam, pubblicate da Einaudi nel 1980. Poi mi ritornano in mente altre letture come quelle di Anna Achmatova, “poeta” non poetessa, Marina Cvetaeva di cui, dagli anni Ottanta in poi, è stato tradotto molto in italiano, Nina Berberova e, prima ancora, i noti e vari poeti russi rivoluzionari (e tutti comunque traditi: "L'ottobre severo mi ha ingannato" scriveva Esenin) come Majakovskij, Blok, Esenin, Pasternak (nel 1978 Carmelo Bene ne leggeva le poesie alla televisione). Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare, Treni strettamente sorvegliati, Ho servito il re d'Inghilterra, Una solitudine troppo rumorosa e tanti altri sono titoli di Bohumil Hrabal. Costui nel 1997 cadde da una finestra al quinto piano di un ospedale di Praga (dissero perché si era sporto troppo volendo imbeccare dei piccioni, ma più probabilmente si suicidò, tenendo presente inoltre che nel 1989 aveva scritto a proposito di una forte tentazione a gettarsi dal quinto piano di casa sua; come avrebbe dovuto fare anche il suo concittadino Franz Kafka).

Mentre si esauriva per noia la verve pubblicistica antimarxista di Colletti, la notorietà di Baudrillard subiva un'accelerazione, prima con Lo scambio simbolico e la morte (omaggio a Bataille compreso), poi, nel più puro stile anni Ottanta, con la pubblicazione di "De la séduction" del 1979 (Della seduzione) e di "Les Stratégies fatales" del 1983 (Le strategie fatali), ma già All'ombra delle maggioranze silenziose e Dimenticare Foucault avevano riscosso un vivace interesse sulle pagine dei giornali e delle riviste.

"Ce qui peut faire échec au système, ce ne sont pas des alternatives positives, ce sont des singularités. Or les singularités ne sont ni bonnes ni négatives. Elles ne sont pas une alternative, elles sont d'un autre ordre. Elles n'obéissent plus à un jugement de valeur ni à un principe de réalité politique. Elles peuvent donc être le meilleur ou le pire. On ne peut donc les fédérer dans une action historique d'ensemble. Elles font échec à toute pensée unique et dominante, mais elles ne sont pas une contre-pensée unique - elles inventent leur jeu et leurs propres règles du jeu".

In questo modo Baudrillard liquidava ogni teoria critica (e su che cosa sia una "singolarità" ho ancora dei dubbi, mentre pensavo, quella volta, a qualcosa di simile alla caduta di un asteroide sulla Terra, per cui il capitalismo si sarebbe estinto come i dinosauri...). E del pensiero rivoluzionario faceva il paradigma di un'epoca trascorsa definitivamente, nient'altro che l'oggetto di una postuma nostalgia culturale (come "le buone cose di pessimo gusto" di Gozzano: "Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone, / i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!) / il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, / i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, / un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, / gli oggetti con mònito, salve, ricordo, le noci di cocco, / Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po’ scialbi, / le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici, / le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature, / i dagherottipi: figure sognanti in perplessità,

il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone..."). La nostalgia sarebbe diventata davvero una merce triviale (e coerentemente inflazionata e svalutata) pochi anni dopo con il rapido dissolvimento delle democrazie socialiste europee (e poi sarebbero seguite la nostalgia dell'URSS e quindi della Jugoslavia titina).

Di fronte alle metaforizzazioni in stile science fiction di Baudrillard e alla "dromologia" di Virilio, non restava che tornare alla fantascienza.

Nominerò una sola scrittrice, Ursula Le Guin, e un solo romanzo, The Dispossessed: An Ambiguous Utopia ("Quelli di Anarres" o "I reietti dell'altro pianeta" in italiano) uscito nel 1974 e due anni dopo in Italia.

In questo romanzo è descritta una società comunista nel momento in cui per stagnazione involve e in cui germinano delle strutture di potere dove prima non esistevano. "Presupposto che nella condizion della vita mortale possano succeder molti difetti, segue che gravi disordini siano al mondo quando, non riuscendo di emendarli, non si ricorre allo spediente di nasconder le cose che non han merito di lasciarsi vedere, o perché son brutte o perché portan pericolo di produrre brutti accidenti. Ed oltre a quanto avviene agli uomini, se pur si considera la natura per tante altre opere di qua giú, si conosce che tutto il bello non è altro che una gentil dissimulazione", così scriveva Torquato Accetto nella Dissimulazione onesta, il quale concludeva con le seguenti parole: "Misero il mondo, se tu non soccorressi i miseri. A te appartiene di usar molti ufici nell'ordinar le republiche, nell'amministrar la guerra, e nel conservar la pace; e dall'altra parte si veggono quanti disordini, quante perdite e quante ruvine son succedute, quando sei stata posta in abbandono e s'è dato luogo a manifesti furori, da che son seguíti quegl'infortunii che tante volte han diturpate le provincie intiere. Quando uno, che doverebbe perire di fame, ha fortuna di poter dar il cibo a molti, quando un ignorante è riputato dotto da chi sa meno di lui, quando un indegno ha qualche degnità, e quando un vile si tiene per nobile, come si potrebbe vivere se tu non accommodass'i sensi a cosí duri oggetti? Vorrei che mi fosse permesso di manifestare tutto l'obligo che ho a' benefici che mi hai fatti; ma invece di renderti grazie, offenderei le tue leggi non dissimulando quanto per ragione ho dissimulato". Per cui credo sia onesto avvertire il lettore così paziente fino ad ora che la voce narrante per sua essenza è dissimulatrice.