Wolf Bruno

il letto e la città. Note volubili intorno al sesso e al suo improbabile governo

Il premier era un puttaniere. Fatti suoi, certo, ma il passo avanti rispetto ai governanti baciapile del passato era evidente, seppure l’apprezzamento del paese andasse sfumando negli argomenti controversi della pubblica discussione. Il suo governo d'altra parte si era adoperato sia nel penalizzare gli ordinari clienti delle prostitute sia nel porre dei pesanti limiti alla libera attività delle stesse. In barba allo scontato ufficio dei preti che raccomandava coerenza fra i comportamenti pubblici e quelli privati, questa ipocrisia politica risultava nei fatti offensiva nei confronti della comune popolazione. Tanto più che la comune popolazione non aveva modo di esibirsi in alcun tipo di sessualità fra le mura di un'antica villa nobiliare come quella che il capo del governo, a quanto si raccontava, aveva acquistato sottocosto agli inizi della sua brillante carriera con la complicità del legale della giovane aristocratica proprietaria la quale, scossa da una terribile vi-cenda famigliare che l'aveva spinta a emigrare, voleva alienarla in fretta insieme agli arredi e alle preziose opere d'arte.

Il nobile ambiente non deve tuttavia far pensare a qualcosa di analogo agli sfarzi eleganti di un Luigi XV con le sue Pompadour, come del resto il rapporto fra il premier e i vecchi governanti baciapile nulla aveva da spartire con quello fra il re di Francia e il suo ingombrante bisnonno, il Re Sole, il quale seppur attento a rimaner discreto e sentimentalmente fedele alla sua regina, non si negò, beninteso, dopo esser stato sverginato a un'età per allora insolita, nessuna soddisfazione. A parte ogni altra considera-zione, rispetto a quella signorile c'era un'evidente differenza stilistica, an-che negli eccessi. Luigi XV, ricordava il marchese d'Argenson, disponeva di varie giovanissime fanciulle che sistemate presso il Parc-aux-Cerfs – quello che oggi si direbbe un “residence” – venivano all’occorrenza con-dotte a palazzo dai servitori. I contorni delle attuali tresche, pur non dissimili, avevano piuttosto l’aria di quel che in tempi meno prudenti si sarebbe definito  “piccolo-borghese”, come se un capo ufficio avesse voluto inscenare le sue personali 120 giornate di Sodoma stando ben attento a non scivolare nella malvagità, sazio di quello che si poteva permettere sfidando in fondo soltanto l’inconciliabile attività della sua stessa azione ufficiale.

Ciò che tuttavia rimaneva un punto fermo interessava il mutamento, grazie all’azione di quest’ultima, dell’antica professione. A ben guardare, gli stessi privati comportamenti del premier, ancorché stratosfericamente lontani dalle comuni possibilità, suggerivano la stessa cosa. L’immagine pubblica della prostituta – e l’immagine dell’immaginazione - sembrava essere cambiata, per quanto sopravvivesse abbondante quella sacca dis-perata che un tempo si andava chiamando - ma il colore della pelle non era più essenziale - “tratta delle bianche” e che costituiva una delle giusti-ficazioni proprio dell’azione del governo.

Per ragioni che qui non è indispensabile affrontare, dei fatti privati del premier si interessò la magistratura. Ovvio rimaneva tuttavia che di un personaggio eletto col voto popolare si potesse sapere quanto possibile, onde rendere in misura maggiormente consapevole  l’elezione stessa, tanto più che anni prima il premier si era fatto eleggere distribuendo copio-samente per posta un fascicolo celebrativo che lo ritraeva felice patriarca di una bella famiglia, nel frattempo dissolta. Queste contraddizioni in fon-do facevano riflettere una volta ancora non tanto sul premier (anche se per ciò che si è detto sopra circa l’elettività era inevitabile farlo) quanto sull’umanità in generale, incoerenze che agli inizi del XVIII secolo il buon Mandeville della Favola delle Api pensò di aver risolto una volta per tutte con la imperitura frase “vizi privati, pubbliche virtù”. Al medico di origine olandese si dovette per giunta una Modesta proposta sulle case di piacere. 

Già parlando delle guerre Mandeville aveva sostenuto che il male è un prezioso alleato del bene e il sottotesto del suo saggio intorno alla pros-tituzione lo confermava. L'idea poteva rammentare certe posizioni della teologia cattolica, mentre può riportare lo smaliziato lettore di oggi a ben diverse e poco virtuose convinzioni come quelle del marchese De Sade, a certe osservazioni di Karl Marx sull'utilità sociale del crimine o, per meno canute formulazioni, alla "difesa dell'indifendibile" di un Walter Block per una volta davvero stellare. Ma la proposta del Mandeville consisteva nell'adibire un intero quartiere di Londra a sede di un piacere pianificato e localizzato, cosa che a suo dire gli italiani avevano tenuto in debito conto da tempi immemorabili, tanto che il Papa Sisto Quinto, "il quale pure aveva mandato alle galere un giovane che s'era permesso di baciare una donzella in strada", dopo aver allontanato le cortigiane le richiamò a Roma per evitare il diffondersi di ancora peggiori depravazioni. Di tenere la pros-tituzione lontana dagli occhi indiscreti se ne parlava adesso anche fra il premier e il suo governo, sempre attento a limitare la libera attività di queste donne e a regolamentare, affinché non incorressero nelle inique punizioni che aveva escogitato, le trattative coi loro clienti.

Non era un ritorno a ciò che gli italiani avevano soprannominato "i casini" (auspicati da Mandeville) ma aveva pur sempre tutta l'aria di un'indebita intrusione dello Stato nella vita privata delle persone, con l'ambizione oltretutto di sovrintenderla. L'indirizzo di tale argomentazione era senza capo ne coda se si voleva impedire che la brava gente fosse disturbata nel sonno, a meno che non si volessero deportare tutti i giovani in appositi quartieri, dal momento che anche alla brava gente toccano dei figli not-tambuli e chiassosi.

A suo tempo, la chiusura dei “casini” ufficiali, aveva suscitato, fra le ultime generazioni dei loro frequentatori, una vasta letteratura a un tempo nostalgica e allegra, che coinvolgeva il romanzo, il cinema e soprattutto il giornalismo. Malgrado ciò, mancarono le analisi più compiute, o furono modeste. Mi vengono in mente i libri di Pietro Bianchi, quello con le testimonianze raccolte da Giancarlo Fusco, e il “malamore” di Remo A. Borzini – quest’ultimo di base a Genova, dove a dar retta a certi pareri esisteva uno dei più bei casini d’Europa, il “Suprema” di via Cebà. Il più popolare fra i libri sull’argomento dovette essere probabilmente l’Addio Wanda di Indro Montannelli, che fu pubblicato tuttavia nel 1956 quando arrivò in parlamento il disegno di legge, dunque prima della chiusura delle "maisons" poste sotto il controllo statale. La tematica era quella che, accettata da Sisto V, risaliva a Sant’Agostino, essere cioè i postriboli, i quali circoscrivevano il malcostume impedendogli di dilagare, la migliore ga-ranzia a salvaguardia della fede cristiana, della moralità, della famiglia e dello Stato. Tutte cose, quest'ultime, che anche l'attuale premier e il suo governo diceva agli elettori, cui dovevano pensare che fossero particolarmente care, di voler difendere.

Benché il governo e i suoi sostenitori amassero rivendicare le basi cristiane della nostra civiltà, la Chiesa per la verità, vi si è già accennato, era più che perplessa al riguardo dei comportamenti del premier. Faceva una certa impressione dunque assistere a vari conservatori moraleggianti, compresi noti "teocon", mentre accusavano gli oppositori (che a dire il vero si rifacevano innanzitutto alle implicazioni giudiziarie, motivate o meno che fossero) di essere dei benpensanti bacchettoni. Si potrebbe dire che le abitudini sessuali del capo del governo, tracimate nella pubblica opinione, costringessero il suo seguito – perlomeno gran parte di esso – a confor-marsi tardivamente a ciò che il resto del mondo occidentale aveva accettato di buon grado come una liberazione nei lontani anni Sessanta. Alcuni, i più smaliziati, sembravano, attraverso le manifestazioni di sostegno che organizzavano, dei “collabo” negli ultimi mesi dell’occupazione tedesca in Francia, ma c’era un po’di vero nei rimproveri che ritorcevano sugli avversari.

Molti di essi – ed era ciò che con più zelo evidenziava l’industria dell’informazione - si erano lanciati davvero in deplorazioni tali da ammonire la piazza mediatica dell'infamia morale della classe dirigente. Se era chia-ro che il premier non danneggiava nessuno nello svolgere le sue private mansioni sessuali, era l’immagine del paese che ne derivava a preoccupare. E con l’immagine del paese quella delle donne, associate a ruoli degradanti dalla bestialità dei maschi del potere che tutto si potevano permettere arrivando persino a chiedere il plauso di quella stessa platea, insieme ammirata e invidiosa, alla quale imponevano proprio in nome della moralità dei limiti seri. Potrei osservare che, se si parla di degrado, anche il lavoro è degradante, quantunque a nessuno venga in mente di biasimare, e men che mai moralisticamente, chi il proprio lavoro è costretto a difendere. L'umana condizione è quello che è. Tale ovvia constatazione porta d'altra parte alla spontanea comprensione del moto che spinge ad accettare, avendone la possibilità, il denaro facile. Che ciò susciti a sua volta, insieme alla comprensione, un intreccio di invidia, in-confessata ammirazione e malignità, piuttosto della solidale partecipazione, è un altro discorso.

Il pensiero correva casomai ai lunghi anni durante i quali un nudo in copertina sollevava infervorate discussioni – sempre le stesse, poi – che andavano a stigmatizzare l’infamante uso consumistico del corpo femminile. Ad attizzare queste discussioni era stato un rinnovato movimento femminile che poneva fra i suoi obbiettivi primari quello di contrastare ogni riduzione oggettuale del corpo della donna. “La donna oggetto” era un’espressione diventata popolare. Non tutto il “fem-minismo” seguiva in ogni caso questa logica, preferendo insistere, ma an-che senza dimenticare ciò che di particolare c’era nell’oppressione “di ge-nere”, sul tema universale dell’alienazione. La scrittrice e storica dell’arte Camille Paglia osservava, per esempio, come nel tenersi separati dai sen-timenti attraverso l’ispezione dei materiali pornografici e la frequentazione delle prostitute, i maschi cercassero di mantenere libera la sessualità dagli obblighi morali, religiosi e procreativi. Più che all’affermazione di astratti e spesso confusi principi c’era dunque anche chi evitava di tacere quegli aspetti della realtà storica e sociale che - pur conflittuali, com’è nella loro natura del resto – indicavano lo sforzo, per chiunque, dell’esistere. 

Femministe come Catharine McKinnon e Andrea Dworkin si distin-guevano invece nel proclamare come inaccettabile atto di violenza contro le donne il rapporto eterosessuale (il maschio stupratore per definizione: indimenticabile!). I loro libelli degli anni Ottanta consacrati alla porno-grafia  si spingevano addirittura a invocare la censura. Secondo la McKinnon la pornografia (vocabolo che discende da quello greco che indica le prostitute) avrebbe il torto di mostrare che le donne "vogliono essere scopate". Altre autrici come Wendy McElroy e Nadine Strossen - sì fem-ministe, ma d'intonazione libertaria - demolivano nei loro libri questo ge-nere di rabbiosità identitaria che estrometteva nei fatti le donne da un pro-ficuo scambio delle idee. Non ci voleva molto del resto a constatare che proprio anche grazie alla pornografia, che allora sposava tutte le battaglie più radicali, si era sviluppata quella richiesta di libertà dalla quale deri-vavano i mutamenti del costume negli anni sessanta, mentre "misure per sopprimere l'espressione sessuale hanno notevolmente colpito quei punti di vista che sfidavano la politica, la religione, la cultura prevalente o l'ortodossia sociale" (Strossen).

Nell'atteggiamento delle femministe "procensura" si può intravvedere l'estremizzazione in chiave di antropologia metrica di quel comico puritane-simo verbale passato alla storia come politically correct, già irriso a suo tempo dallo storico, critico d'arte e documentarista australiano Robert Hughes come "cultura del piagnisteo". Malgrado questo tipo di consi-derazioni si potesse applicare a certi oppositori del premier, si assisteva per la verità a tali e continui ribaltamenti di posizione, a intrecci per niente chiari di culture fra governo e opposizione, che affermare le competenze dell’uno e dell’altra era inutile. Tutti si rincorrevano rincorrendo il consenso e ciò che poteva produrlo – come “la sicurezza”, apri strada delle misure sulla prostituzione, o l’atteggiamento verso la Chiesa – così che nessuno metteva veramente in discussione qualcosa (salvo le pendenze giudiziarie del premier). Se ancora ce ne fosse stato bisogno, la situazione andava confermando pessimisticamente quel che la sociologia italiana delle élites aveva sostenuto un secolo prima, essere cioè la democrazia soltanto una tecnica di selezione per la classe dirigente che non ne va ad intaccare l’autorefenzialità della sua natura oligarchica. Il fatto che il Premier fosse un vero creso giocava un suo ruolo preciso nel trasferire la contesa elitaria – e democratica - fin dentro al gioco fra le tradizionali fami-glie economicamente potenti e il nuovo ricco che le aveva surclassate.

Gli antichi epicurei avevano sostenuto che l’aspirazione alla ricchezza, al potere, alle relazioni più sfrenate altro non erano che fantasie travestite da comuni preoccupazioni. C’è chi sostiene – Proust per esempio - che anche l’amore sia una di queste, nient’altro che una vicendevole proiezione, il reciproco parto dell’immaginazione. Ciò nondimeno, la ricchezza e il potere consentono di materializzare al meglio, giovandosi della prostituzione, tutte quelle fantasie altrimenti considerate sconvenienti. La prostituzione è infatti quel contratto che cede al pagatore un’importante fetta di potere, solitamente delimitato dall’amore, il quale tuttavia travolge talvolta i limiti. Il denaro e la ricchezza, il potere che ne deriva, costituiscono infatti qualche volta una robusta motivazione dell’amore.

Fra i tanti casi di nababbi innamorati che dal Ventesimo secolo hanno cominciato ad occupare copiosamente le gazzette del cuore, e non solo quelle, il rapporto fra il magnate americano dell'editoria William Randolph Hearst e l'attrice Marion Davies rimane fra i più discussi. Tante furono le somiglianze fra la storia raccontata da Orson Welles in Quarto Potere e la vicenda biografica di Hearst che si pensò a questa come la fonte del-l’ispirazione. Introducendo anni dopo le memorie della Davies il regista lo negò, ma l'opinione comune non subì alcuna variazione, benché la dif-ferenza fra l'ostinazione del protagonista del film a forzare la carriera artis-tica della sua poco dotata amante e la rispettabile carriera cinematografica dell'attrice fosse evidente. Hearst era un frequentatore dei camerini del varietà e non si faceva sfuggire nessuna bella donna della compagnia di Ziegfield, la più importante e celebrata. La Davies era una di queste. Di origini borghesi, al varietà non ci era arrivata per sbarcare il lunario, bensì sotto la spinta della madre, che riteneva lo spettacolo un luogo dove si potevano combinare matrimoni vantaggiosi. Hearst confermava questa convinzione, dal momento che aveva sposato una ballerina. Ne avrebbe tuttavia fatto le spese Marion che si dovette accontentare del ruolo di amante, per quanto speciale. Il magnate organizzò la sua vita vivendo con Marion ma approfittava delle ambizioni mondane della moglie, dalla quale non divorziò, per gli incontri ufficiali. Per altro le due donne vivevano ai lati opposti degli Stati Uniti. La Davies non amava, perlomeno all'inizio, Hearst, e lo tradì con un'infinità di uomini, fra i quali colleghi del calibro di Charlie Chaplin e Dick Powell. Ciò nonostante, nel momento che insorsero delle serie difficoltà nell'impero economico dell'amante, la Davies si offrì di aiutarlo col proprio patrimonio. Lo convinse inoltre ad abban-donare l'incredibile castello dove vivevano e dove Hearst aveva accu-mulato ogni sorta di opera d'arte e parafernalia (questa sì, una somiglianza significativa col film di Welles) per trasferirsi in una villa di Beverly Hills che lei stessa aveva acquistato.

Discussa che sia stata – e lo è stata molto – questa vicenda sembrava tenere ancora saldo il parametro della famiglia. Quella del premier, viceversa, dava l’impressione di averlo superato in una baraonda di allegre amicizie. Mentre l’uno, alla maniera della “classe agiata” di vebleniana memoria, dimostrava il suo rango attraverso un castello di collezioni, l’altro lo faceva con le donne, tutte stranamente in linea col modello diffuso dai suoi stessi mezzi mediatici, quasi che questi fossero il suo stile di vita e lo stile di vita auspicabile per chiunque.

Una volta che la moglie, diversamente da quella di Hearst, si volle sganciare dal legame formale, il premier non badò più alle formalità. Il sorriso non gli era mai mancato e continuò a sorridere. E se il premier rideva, gli altri, gli oppositori, dovevano mostrare le loro espressioni più preoccupate. Faceva parte del gioco democratico. In sostanza la disputa si riduceva a chi mostrava i denti nel sorriso e a chi scuoteva la testa senza mostrare i denti. O meglio, i denti li mostrava soltanto a proposito delle pendenze giudiziarie del premier, e in questo si distinguevano non a caso un parla-mentare con un passato da sbirro e uno scrittore che si agghindava come uno sbirro delle serie televisive antimafia. Il paese pareva accontentarsi, salvo poi disertare casomai le cabine elettorali.

Nemmeno la satira, rappresentata da una pattuglia niente affatto ordinaria, era di aiuto. A far ridere c'era invece un oppositore di quelli chiamati "radicali" che quando era un giovane comunista promettente negli anni Ottanta,  aveva rilasciato ai giornali delle dichiarazioni sulla sessualità dei bambini che nell'attuale contesto potevano essergli rinfacciate, ma stra-namente veniva lasciato su questo piano sostanzialmente in pace, forse per evitare complicazioni con l'elettorato omosessuale. Questo personaggio ostentava nelle numerose apparizioni televisive una retorica 'ambiziosa di ascendenza vagamente barthesiana (tutto è "narrazione") miscelata con toni da "destino manifesto" e dichiarazioni di fede papista. Il suo "radicalismo" finiva lì. Quelli che il premier e i suoi servitori definivano dei vecchi arnesi della politica - provenissero dalle sacrestie o dalle feste di partito - erano in fin dei conti degli oppositori più temibili.

Vivace era semmai l'opposizione diffusa, quella che trovava riscontro sui blog, sui social network e su tutte le altre opportunità offerte dagli attrezzi della comunicazione post-gutemberghiana. Anche in questo caso tuttavia l'elemento inebriante non superava in genere le vicende giudiziarie del premier. Si arieggiava qualche volta lo spettro di un fascismo, dati i tempi, morbido, ma le ipotesi in tal senso erano smentite dai commentatori più autorevoli, oltre ad essere formulate in modo per niente convincente. Il premier, in ogni caso, aveva la tendenza a riportare le fonti del diritto al suo governo (da qui la polemica con la magistratura) e ciò poteva giustificare certi azzardi. Del resto, così facendo il premier consolidava la sua personale opinione di un primato del governo - espressione della maggioranza parlamentare, della quale aveva una visione autosufficiente e salvifica - sulla società, e questo paradossalmente nel momento stesso che ne esaltava i valori spontanei (la famiglia, l'impresa, la concorrenza). Una bella confusione, nient'altro.

Della confusione il premier aveva fatto col sorriso il suo stile, fra af-fermazioni categoriche, insipide battute di spirito e successive smentite (ma anche riaffermazioni). Quando le notizie sui suoi festini occuparono la pubblica opinione, egli aggiunse un elemento ammiccante. Se non smentiva, ridimensionava e se non ridimensionava strizzava l’occhio. In questo modo copriva tutto lo spettro dei suoi sostenitori, dai corrucciati moralisti agli snob libertini. In fin dei conti, sapendo cosa la virtù impone, è difficile incontrare un vero virtuoso. Se qualcuno magari gli rassomiglia, il più delle volte è perché “vuole” essere virtuoso, ha cioè il piacere, libidinoso, di esserlo. Una manifestazione di superbia.

Ai vecchi tempi dei ministri baciapile non era facile incontrare perfino chi li votasse, a meno di non ascoltare vari distinguo e imbarazzate giustificazioni. Il premier godeva invece di un elettorato orgoglioso che di lui faceva bandiera, un vero cavaliere dell’ideale. Sbagliava chi lo voleva ri-durre a corpo del reato, lo era dell’ideologia. (Febbraio 2011)

“Quaderni Genovesi 01 – almanacco della Fondazione De Ferrari 2011”