Wolf Bruno
l’influenza e Lethem
Jonathan Lethem: L’ESTASI
DELL'INFLUENZA. Bompiani 2013
Mi
manca una precisa ragione per confrontare i saggi di Jonathan Lethem con quelli
di David Foster Wallace, ancorché spulciando quelli del primo, in tutta
legerezza, qualcosa forse troverei. I due appartengono alla medesima
generazione, ma per qualche motivo legato, presumo, alla pubblicità, Lethem
sembra essere una sorta di epigono, ancora oggi, cinquantenne, condannato agli
attestati del giovane scrittore mentre l'altro troneggia fra i maestri di una
letteratura americana nella quale William Faulkner ha lasciato vacante il posto
tanti e tanti anni fa.
Nei
confronti di Wallace ammetto di aver provato un vago risentimento quando lessi
i suoi saggi (Einaudi, 2006) di Considera l'aragosta: non si era ancora
suicidato ma era già stato allestito il suo successo postumo, una reputazione
d'altra parte già enorme in vita. Verso chi gode di una fama esagerata è facile
provare invidia e, se si tratta di artisti, non è escluso che la si cerchi di
camuffare attraverso buone ragioni estetiche. Che potrei fare se questo aspetto
poco edificante dovesse balzare agli occhi di chi mi legge? Niente. Peggio per
me. Che la bandana con la quale si faceva fotografare Wallace avesse lo stesso
significato picaresco che ebbe l'autostop dei Beat lungo la route 66 poteva
anche andarmi bene - chi se ne frega - ma che nell'inconcludenza di quei saggi
si dovesse leggere Kafka e nella vacuità lo sperimentalismo proprio non mi
andava giù. E non è che a me il dire niente non piaccia, non sono così sleale
da non riconoscere che bisogna esser veramente bravi per riuscire a scrivere
dell'11 settembre in maniera trasversale ed elusiva e che dunque da questa
bravura consegua il prestigio ottenuto da questi saggi.
Jonathan
Lethem potrebbe non essere altrettanto bravo e alcuni dei saggi raccolti in L'estasi
dell'influenza mi sono sembrati persino scialbi. Ciò è facilmente scusabile
se si pensa alle decine di articoli raccolti nel volume e una qualità
discontinua rivela più la vitalità di alcuni che altro. Quelli maggiormente
omogenei all'annuncio tematico promesso dal titolo (sostanzialmente la prima
parte del libro) sono veramente orientati, a mezzo di fumetti, cinema,
fantascienza, libri usati, a un rapimento godereccio che fa le spallucce
all'angoscia raccontata da altri. Riconoscere che con un po' di buona volontà
la grande opera d'arte americana vada recuperata nel cinema di Ford, nei
romanzi di Philip K. Dick e nella musica di James Brown equivale ancor oggi a
insufflare ebbrezza nelle menti assopite, come farsi crescere i capelli sulle
spalle alla bohèmien valse per tanti l'accesso a un mondo nuovo.
Il
papà di Lethem rifiutò una promettente e sicura carriera accademica per un
lavoro di ebanista, quindi Lethem non ha avuto bisogno di bandane per
raccordarsi alla passata bohéme, l'ha avuta in famiglia. Se tuttavia nel suo
cuore hanno stazionato le figure del fuorilegge e del fuoricasta, di Kerouac si
è stancato presto e di Mailer dubita che redivivo potrebbe occupare uno spazio
anche piccolo. Eppure sostiene di averne individuato l'influenza, abilmente
dissimulata, proprio in David Foster Wallace - e lo dice con ammirazione e
senza malizia, almeno apparentemente. Ma se alla sua epoca Mailer poteva dire
che "le merde ci stanno uccidendo" oggi, osserva Lethem, sarà meglio
fare attenzione ai depositi di merda che siamo diventati.
“Fogli di Via”, Novembre 2013