Carlo Romano

Leone e/o De Ambris

 

Daniele D'Alterio: LA CAPITALE DELL’AZIONE DIRETTA. Enrico Leone, il sindacalismo «puro» e il movimento operaio italiano nella prima crisi del sistema giolittiano (1904-1907). Tangram Ediz. Scientifiche, 2011 | Enrico Serventi Longhi: ALCESTE DE AMBRIS. L'utopia concreta di un rivoluzionario sindacalista. FrancoAngeli, 2011

Del sindacalismo rivoluzionario italiano non è che si parli molto e quando se ne parla è perlopiù di sfuggita, come un'esperienza che o si è esaurita rapidamente nelle sue premesse o che, su tempi più lunghi, le ha trascese in costruzioni ideologiche dove alcuni dei loro elementi si sono traviati così da generare sospetti e diffidenze in quelle stesse pur congeneri forze che, scegliendo di rigettarle, le tacciarono di “economicismo”. Mentre in ballo si portava una diversa impostazione politica (o, se si vuole, di dissoluzione della stessa) il termine stesso “sindacalismo” traeva in inganno, associato com'era alle rivendicazioni di mestiere. Sostanzialmente indifferenti alla contesa che oppose “ortodossi” e “revisionisti” nel movimento socialista delle origini (un vasto e ancora valido studio dedicato a quel dibattito di oltre un secolo fa, quello di Giacomo Marramao, pubblicato da De Donato nel 1971, si addentra poco o niente, essenzialmente in appendice, nei meandri del sindacalismo rivoluzionario) i sindacalisti si ritenevano nondimeno dei marxisti conseguenti. Filippo Turati non vedeva nessuna differenza fra sindacalismo e socialismo e si doleva che si confondessero le acque con la terminologia, mentre per Antonio Graziadei i sindacalisti erano figli legittimi di Marx malgrado i loro riferimenti eclettici (si veda, per uno studio più recente, la Storia del marxismo italiano dalle origini alla grande guerra di Pietro Favilli, pubblicata da Franco Angeli nel 1996). C’è da dire tuttavia che rispetto alle rigide impostazioni degli “ortodossi” -  ancorché in Italia esse potessero stemperarsi nelle riflessioni di alcuni filosofi - quelle dei sindacalisti esprimevano delle aperture culturali cui il termine “revisionismo” poteva essere facilmente affibbiato, dal momento che si allargavano al “liberismo” e a Pareto (conosciuto personalmente da Arturo Labriola) nonché alle filosofie allora in voga, fossero l’idealismo italiano, il pragmatismo americano, Nietzsche, Bergson e ogni altra propensione critica nei confronti di un facile positivismo. Il punto di riferimento più esplicito era ad ogni modo quello di Sorel, il quale se da una parte avanzava le sue riflessioni sulla violenza, dall’altra manifestava un conservatorismo morale che lo spingeva a intorbidarsi in ogni qualsivoglia mitologia sociale mobilitante, compreso il nazionalismo. Da qui l’origine di quelle derive intellettuali - all’origine di sospetti e diffidenze - che sono finite per tramutarsi nelle certezze (proto-fascismo) di tanti per davvero eminenti sgobboni, cui serve poco ricordare gli entusiasmi di Sorel - il che sarebbe magari un’altra fonte di preoccupazione - per ciò che accadde in Russia, senza contare che, specialmente nell’ambiente milanese segnato  dall’attività schiettamente elitista di Arturo Labriola, la cui rivista, non a caso, era intitolata all' “Avanguardia Socialista”, si intravvedono delle anticipazioni del rivoluzionarismo leninista. Come minimizzare beatamente, del resto, l’influenza che queste idee ebbero sul Gramsci, per esempio, dell’articolo ordinovista che ha per tema “il capo”?

I saggi biografici, usciti in sorprendente coincidenza, che investono in tutto o in parte il fervore di due eminenti figure di questo movimento come Enrico Leone e Alceste De Ambris, aiutano a capire insieme ai nodi teorici e all’azione, la psicologia di questi militanti. Il primo, campano, fu fra coloro che si opposero alla guerra, ebbe un momento “soviettista” nel senso più proprio e “consiliare” del termine e fu presto deluso dalle faccende russe. Il secondo, lunense, amico di Ceccardo, fu interventista con Corridoni, fiumano (sua la “carta del Carnaro”) con D’Annunzio e, malgrado qualche tentennamento mussoliniano, passò all’emigrazione, senza seguire le sollecitazioni del fratello Amilcare (cognato di Corridoni) per un suo rientro in Italia e una conciliazione col fascismo al potere.

L’esame di Daniele D’Alterio (per quasi novecento pagine) sugli anni romani di Leone alla Camera del Lavoro, mette in luce il tentativo di superare nel socialismo italiano la distinzione fra “gradualisti e “rivoluzionari” (Leone, dopo esser stato redattore capo dell’ “Avanti”, benché avesse importato sulla sua rivista vari testi di Sorel, di questo non condivideva tutto) e quindi, nell’ambito del sindacalismo, una chiara dissonanza col “rivoluzionarismo” dei milanesi: “Ciò che importava a Leone era che il sindacalismo integrale, espressione istituzionale dell’autonomia operaia, non lasciasse al di fuori delle sue file nessuna particella economica, politica, culturale o finanche parlamentare riconducibile in qualche modo al proletariato organizzato, alle sue strutture ed alle sue esigenze, ciascuna di esse inglobandola, fagocitandola, trasformandola infine in un’unica, compiuta ed eterogenea iniziativa anticapitalistica.”

Quella di Serventi Longhi - scolaro del recentemente scomparso Alceo Riosa, autore presso De Donato negli anni Settanta di una monografia sul sindacalismo rivoluzionario – è una biografia a tutti gli effetti di una di quelle figure “che hanno incarnato le oscillazioni e le ambivalenze del Novecento italiano e hanno personificato l’irresolubile frattura della cultura rivoluzionaria a partire dalla prima guerra mondiale. La sua drammatizzata scelta interventista segnò uno spartiacque fra la lettura rassicurante dell’eroe del proletariato e quella sconveniente del traditore parafascista. La stesssa storiografia italiana, così pervasa da questo spirito di parte, dal mito di sé come dall’antimito dell’altro,  ha dipinto almeno due De Ambris contrapposti, a seconda che la prospettiva guardasse al periodo precedente al conflitto o a quello successivo.” “Fogli di Via”, luglio 2012