>Luigi Marco Bassani, Marxismo e liberismo nel pensiero di Enrico
Leone, Giuffrè, Milano 2005
Quella di Enrico Leone è una figura controcorrente, e bene ha fatto Luigi Marco Bassani a dedicargli un eccellente studio. Il volume aiuta a comprendere come tale autore sia stato rigettato dai moderati a causa del suo spirito rivoluzionario, e rifiutato dai progressisti a causa del suo netto liberismo.
Eppure proprio questa “eccentricità” potrebbe fare di Leone un punto di riferimento utile a quanti vogliono cercare sentieri nuovi. Espressione di un’estrema sinistra che ora non esiste più, egli sapeva schierarsi con i più deboli e al tempo stesso era determinata a rigettare ogni forma di statalismo, pianificazione, spesa pubblica.
Così, quando nel 1904 venne costituita una Lega antiprotezionista il manifesto fu sottoscritto da un gruppo di liberali di tradizione classica come De Viti De Marco o Giretti, ma anche dai socialisti dell’ala sindacalistica: Arturo Labriola, Romeo Soldi e – appunto – Enrico Leone. E all’interno di quest’area, egli fu certo la figura intellettualmente più originale.
Direttore del periodico “Divenire Sociale” (l’organo dei sindacalisti rivoluzionari su comparvero pure articoli di Benito Mussolini), Leone ebbe una particolare vocazione per la riflessione teorica. È sufficiente leggere il volume del 1909 su La revisione del marxismo per cogliere come si sia di fronte ad marxista che ha avuto il merito di comprendere le ragioni (morali, economiche, giuridiche) dell’economia di mercato. Per anni il suo sforzo sarà quello di coniugare il socialismo e le teorie liberiste più innovative che andavano emergendo.
Economista assai acuto, Leone vive con drammaticità la crisi del marxismo di fine Ottocento. In particolare, nei suoi scritti il sindacalismo diventa il punto di partenza per una riflessione inedita intorno alla lotta di classe, che riscopre – inconsapevolmente – la lezione di quei liberali francesi che avevano opposto i gruppi tutelati dal potere pubblico (parassiti) e quelli privi di protezioni (produttori).
Ma il nodo cruciale che più inquieta lo studioso napoletano è il tema del valore-lavoro. Soprattutto nel Capitale, Marx si era autorappresentato quale fondatore di una teoria che spiegava la realtà a partire dai rapporti materiali: intesi come rapporti economici. Leone avverte però come tutto ciò si basi su quella concezione del valore-lavoro ormai completamente screditata.
Egli coglie le aporie della teoria marxiana e – di conseguenza – delle stesse tesi sullo sfruttamento capitalistico. Se il marginalismo è riuscito a buttare nella spazzatura della storia l’idea che il valore di un bene sia da ricondursi alla quantità di tempo necessario a produrlo, allora appare screditata la stessa idea secondo cui il capitalista sottrarrebbe un plus-valore all’operaio.
Avido lettore degli autori liberali, Leone accoglie la sfida lanciata dai “marginalisti” (Jevons, Menger e Walras) e al tempo stesso si rifiuta di reinventare un Marx sottratto da ogni rapporto con la riflessione materiale. Se la vulgata marxista novecentesca sarà per lo più hegeliano-marxista (da Lukacs alla scuola di Francoforte), Leone tenta di essere fedele a Marx stesso, ripensandone la teoria entro le logiche della nuova scienza economica. L’esito di tale scelta è un marxismo anomalo: massimalista, estremo e destinato a sganciarsi sempre di più dai capisaldi del socialismo.
D’altra parte, nella lettura che egli ne diede «il sindacalismo non è meno severo del liberismo contro la concezione statalistica della produzione».Il vero grande avversario di Leone si rivela quindi essere il socialismo di un Filippo Turati e, alla fine, sarà proprio la sua vena libertaria ad allontanarlo sempre più dalla tradizione marxista. Leone rigetta il socialismo “giolittiano” perché non nutre alcuna illusione in merito alla possibilità di conquistare lo Stato per piegarlo alle ragioni della giustizia. Se la vera frattura di classe ha origini politiche (e statuali) ben più che economiche (e capitalistiche), è allora un’ingenuità imperdonabile quella di chi pretende di conquistare il potere per modificarlo “dall’interno”.
Nella sua monografia, Bassani sottolinea come nel corso della storia il marxismo abbia finito per celebrare il potere. E lo stesso Engels afferma che occorre “concentrare sempre più nelle mani dello Stato tutto il capitale, tutta l’agricoltura, tutta l’industria, tutti i trasporti, tutti gli scambi”.
Da parte sua, invece, Leone non smette mai di avversare la coercizione organizzata; e per il medesimo motivo egli rigetta la violenza politica e le logiche “soreliane”. Quando il movimento sindacale italiano si trova coinvolto in scioperi di massa, la sua posizione sul rigetto della violenza è netta. Egli sostiene che essa è dannosa in primo luogo ai lavoratori stessi, ma è pure evidente come egli nutra un rigetto morale di fronte all’ipotesi di prevalere con la prepotenza e l’intimidazione.
È nel suo sforzo di restare fedele alla lezione di Marx che Leone finisce per allontanarsi da lui. In effetti, negli ultimi scritti Leone abbraccia un liberismo assai “realista” e rivoluzionario, che denuncia i consolidati meccanismi di sfruttamento controllati dal ceto politico. Per lui lo Stato è nemico in quanto è Stato, e non perché solo perché “borghese”.
Intellettualmente isolato e marginalizzato dal dibattito intellettuale e dal “nuovo corso” della storia europea, nel corso degli anni Trenta egli finirà la propria vita recluso in un manicomio. E si tratta forse di un esito non incoerente con la vicenda intellettuale di uno studioso che aveva osato immaginare l’impossibile e che solo oggi possiamo tornare a riscoprire.
“L’Indipendente”,
15 ottobre 2005