Gli scritti, che ora si leggono
in M. Leiris, Un génie sans
piédestal et autres écrits sur Picasso,
Paris, Fourbis, 1992, sono apparsi originariamente come qui indicato:
Faire-part, in «Cahiers d’art», IV-V,
1937, fascicolo speciale dedicato a Guernica; L’Abécédaire de Picasso, nel catalogo Picasso, peintures,
dessins (1904-1955), gravures rares, céramiques, Cannes, Galerie 65, 1956; Non hors du temps…, nel catalogo Picasso, dessins 1966-1967, Paris, Galerie Louise Leiris, 1968. Ricordiamo che il cante hondo, cui si accenna nel primo testo, è lo
strato più antico e puro delle canzoni tradizionali del flamenco.
Michel Leiris
tre testi su Picasso
Il mondo tramutato in camera d’albergo
– in cui tutti noi, gesticolando, aspettiamo di crepare –, il sole ridotto alle
proporzioni di una lampadina che luccica a due dita dalla nostre teste in una
sordida intimità, gli spasmi del cavallo contorto come un Pegaso intrappolato
di colpo in qualche orrendo scannatoio, il toro – unico vincitore – che
dardeggia eternamente le sue corna, i personaggi convulsi, il tavolo duro,
l’uccello che si sgola: è inutile cercare le parole per descrivere questo
compendio della nostra catastrofe bianca e nera, la vita che viviamo, quasi
fossimo i pezzi di un gioco di scacchi capaci però di avvertire, come
altrettante coltellate, i rapporti ostili che si stabiliscono fra loro, a
piacere dei giocatori, e senza che i sussulti di dolore possano mutare in nulla
le regole di una selvaggia geometria.
Prendere la penna e allineare
parole, quasi dovessero aggiungere qualcosa a Guernica di Picasso, è il più vano di tutti i compiti. In un
rettangolo bianco e nero che suscita in noi l’immagine della tragedia antica,
Picasso ci manda la partecipazione di lutto: tutto ciò che amiamo sta per
morire, e proprio per questo era così necessario che si riassumesse, come le
effusioni dei grandi addii, in qualcosa di indimenticabilmente bello.
Al modo in cui il grido del cante hondo deve attendere di essere
salito fino alla gola del cantante perché la sua peste venuta dalla terra
divenga madreperlacea e iridata, così tra le dita di Picasso si cristallizzano
e brillano come diamanti i vapori bianchi e neri, respiro di un mondo in agonia
che ben presto le più orribili meteore – coltelli per il nostro amore –
trafiggeranno fino all’osso.
* * *
L’abbecedario di
Picasso
Che la pittura sia scrittura, è
oggi un luogo comune. E, a maggior ragione, dire la stessa cosa del disegno è
voler sfondare una porta aperta: penna e matita fanno sorgere dal nulla del
foglio dei lineamenti che saranno parole, figure, oggetti, secondo i desideri
dell’essere pensante che maneggia questi fragili strumenti. Ma c’è chi, tenendo
in mano la penna o la matita, sa tracciare solo vocaboli, mentre qualcun altro,
più fortunato, dispone anche del potere di formare quelle immagini viventi in
cui vengono intrappolate alcune porzioni di mondo, afferrabili in un colpo
d’occhio e senza far ricorso all’astrazione costituita dal dizionario che
ognuno di noi si porta in testa.
Certo, come chiunque non sia
analfabeta, Picasso sa scrivere. Ma conosce, tanto in francese quanto in
spagnolo, quella preziosa varietà dell’arte calligrafica designata con un
gruppo di lettere che si pronunciano POESIA. Come molti, Picasso sa anche
disegnare e, come pochissimi, eseguire superbi disegni (e ciò con la velocità
del lampo). Ma come nessun altro è capace in ogni istante di raggiungere quella
diversa varietà di poesia che è l’espressione grafica, quando essa si situa,
per intensità, ben oltre ogni «bella scrittura», vale a dire su un piano di cui
l’idea più certa che possiamo averne è che non ne sappiamo nulla, tranne il
fatto che a quel livello, dove l’ostrica è affascinante quanto la perla, siamo a nostra volta
catturati.
Servendosi di tutti i mezzi a sua
disposizione e facendo faville – poiché lo si è visto tramutarsi in drammaturgo
e persino in cineasta – Picasso, a partire dalle cose e dalle parole di ogni
giorno (le più logore e nel contempo le più amate), disegna tutto un mondo suo,
senza che mai si stanchi quell’inventore che, come certi dormono sotto i ponti,
abita nella sua scatola cranica. Dunque, è l’umanità di tutti e di sempre che
egli offre in lettura a quei bimbi stupiti che noi siamo, tramite i segni
familiari o sconcertanti di un meraviglioso abbecedario, che non cessa di
rinnovarsi e di farci sgranare gli occhi, una lezione dopo l’altra.
* * *
Non fuori del tempo, ma in un tempo in cui nulla
potrebbe essere anacronistico, si trova trasportato chi guarda questi fogli su
cui Picasso ha iscritto, e a volte giustapposto, figure di ogni stile e di ogni
secolo – tempo senza tempo della mitologia, epoca degli antenati scesi dalle
cornici dei quadri, giorni di ieri e di adesso.
Personaggi di una veracità evidente – benché queste
figure, che saremmo stati pronti a giurare fossero quasi tutte ritratti, spesso
non lo siano – appaiono ora soli, ora accoppiati (talvolta, a quanto sembra,
per l’amore che sono sul punto di fare, stanno facendo o hanno appena fatto),
ora raggruppati nell’ambito di scene alcune delle quali si riducono a
confronti, scoperte reciproche, incontri o congiunzioni pure. Quando due o più
personaggi vengono in tal modo coniugati, il soggetto, più che un aneddoto
storicamente collocabile, è un caso fra altri di messa in presenza, come se si trattasse di illustrare o
teatralizzare – in un apologo che avesse per attori questi esseri riuniti –
l’opera misteriosa che ogni arte figurativa attua, o dovrebbe attuare: metterci
in presenza di una realtà, che peraltro può essere una realtà qualunque, e far
sì che essa venga sperimentata con intensità.
Per instaurare la presenza assoluta di un essere che
in verità è fittizio, o per offrire allo spettatore, posto allora nella
posizione marginale del testimone, l’intima cattura di ciò che comporta di
umanamente cruciale il dramma, più o meno segreto, di ogni messa in presenza
(quando ognuno è al massimo grado se stesso, davanti o accanto ad un altro),
nessun mezzo è a priori più adeguato,
e con i suoi disegni a matita o ad inchiostro, così numerosi, Picasso sembra
dimostrarlo facilmente. Qui conta solo – oltre, ma questo va da sé, alla
qualità davvero folgorante dell’esecuzione – la compiutezza perentoria, la
riuscita evidente, e poco importa per quali vie, brusche o insidiose, l’artista
abbia potuto imporre come realtà invasiva il simulacro che si è compiaciuto di
far sorgere dalla carta.
Situandoci così in presenza di un singolo, di una
coppia o di un gruppo di personaggi che il destino sembra aver posto l’uno di
fronte all’altro, Picasso, come al solito, mette con le spalle al muro il
commentatore, al quale non resta che tacere: una qualsiasi glossa (questa, per
esempio) può forse aggiungere qualcosa a ciò da cui lo sguardo è, fin da
subito, affascinato?
(Traduzione di
Giuseppe Zuccarino)