Riceviamo dalla Lucania, patria di quell’altro
Lomonaco che partecipò alla Repubblica Partenopea del 1799, questa bella
recensione alla raccolta “napoletana” di Benedetto Croce (Un
paradiso abitato da diavoli) pubblicata
quest’anno da Adelphi a cura di Giuseppe Galasso. L’autore non ci spiega come e
perché abbia scelto le nostre pagine, ci dice soltanto di aver trattenuto la
penna affinché la recensione non ingrossasse fino a diventare “la solita
lagna meridionalista”. Chissà, sapendo
che operiamo dalla Liguria avrà voluto privilegiarci per le antiche relazioni
intrattenute fra le nostre rispettive regioni fin dai tempi dei Doria (un loro
palazzo, oggi sede del Comune di Genova, si chiama Tursi proprio in ossequio
alla città Lucana).
Rocco Lomonaco
tra lazzaroni e liberali: cinismo en plein air
Di tanto in tanto qualche
spazientito nordista sembra pentirsi dell’annessione (del regno) di Napoli allo
stato sabaudo, come a lamentarne la minaccia latente ed incombente al decoroso
e ordinato vivere subalpino: svuotata la cassa, un secolo e mezzo dopo, i
conti, non solo economici, segnalerebbero perlopiù cifre in rosso, col rischio
aggiuntivo che la già “fertile Campania” minacci la precaria salute del resto
d’Italia, esportandovi, dopo averle ben covate, le sue risorgenti infezioni. Lo
sfogo originato dai panorami di discariche e dall’illegalità tollerata e
istituzionalizzata è l’ultima strillata variante dello scoramento da “cane
scottato” già patito dai maggiori tra i residenti, allorché datavano almeno
alla fine della Grande Guerra la morte della cultura partenopea, rilevando come
di uno straordinario accumulo di bellezze sopravvivesse ormai soltanto
un’ingombrante stratificazione di malinconie, comuni al lirico-elzevirista ed
al petulante posteggiatore. Oltre la stupidità in cui naufragano i giudizi
generali sui popoli, oltre la baldanzosa impunità in cui si scapricciano le
armate leggere dei quotidiani, il granellino di verità di simili sentenze e
invettive starebbe in quelle che Benedetto Croce definiva mancanze della vita
civile e politica. Col suo tessuto di “male opere, di bassezze e d’imbrogli”
l’indiavolata canaille motorizzata avrebbe oggi compiutamente reso infernale
quel paradiso che un vecchissimo usurato topos assegnava alle genti partenopee.
Tramontata ogni facile e illusoria solidarietà illuministica, la storia avrebbe
esaurito le linee di credito e ingenerosamente condannato quel popolo per non
aver, hegelianamente, sentito “l’onore di procurarsi la sussistenza col lavoro”
mentre tuttavia conservava la pretesa che “sia suo diritto ricevere la
sussistenza stessa”. Di questi motivi, tralasciando le illazioni di “poco fini
intenditori” (e chissà se ne faceva parte il Leopardi satirico che
indietreggiava davanti alla lieta vita cui troppo pesava l’anteporre il morire
ai maccheroni) e non senza tacere le simpatie suscitate dai napoletani “specie negli artisti, nei sentimentali e nei
grandi dilettanti”, il grande storico e filosofo s’occupò a più riprese in
studi e comunicazioni ora parzialmente raccolti da G. Galasso per l’editore
Adelphi in Un paradiso abitato da
diavoli.
Il coro dei lazzari, i fuori-classe che tanto
attrassero gli stranieri, pacifici o armati, per un paio di secoli a partire da
Masaniello, con gran spaccio di invenzioni ed esagerazioni, almeno fino ad A.
Dumas, accompagna il giovane erudito Croce negli scavi di vita spagnolesca o
nelle rievocazioni tragiche della diversità napoletana. La specificità di ciò
che a nord del Brennero vituperavano come Lumpenproletarier e che i viaggiatori
benevolmente tolleravano sotto il Vesuvio come lazzarone, ultimo selvaggio
smarrito nella civiltà europea, segnalava l’incepparsi del progredire
dialettico nella scrollata di spalle di chi non ne vuol sapere. “Perché il <
lazzarismo > non era una semplice condizione economica, ma un atteggiamento
psicologico e una condizione morale che conferivano un carattere spiccato alla
plebe napoletana… perché i lazzaroni vivevano giorno per giorno, senza darsi la
pena di raggranellare più di quanto servisse per la giornata; spensierati e
gai, di una gaiezza tra comica e umoristica: La povertà…comportava elasticità
di spirito e una sorta di calma visione tra artistica e filosofica” (pagg.
105-106).
Mite cinismo all’aria aperta, dunque, sapienza vissuta e vivibile sono
in climi temperati, esperienza negata a più nordiche latitudini. E al golfo
come oasi di ozio riflessivo, se non di cinismo popolare, parentesi
spregiudicata nella passione coinvolgente dei commerci, sembra guardare, dai
posati colli torinesi, pure Luigi Einaudi accingendosi, nel 1918, alla lettura
dell’epistolario goethiano (allora appena tradotto da G. Fortunato) relativo al
soggiorno napoletano del 1787. Anch’egli incuriosito dalla “vita facile” che,
stretti tra Dio e Satana, si conduceva agli orli del vulcano, ne rese conto,
con venature che oltrepassavano il triste calcolo economico, su
La scuola napoletana
insegnava che si può lavorare più sobriamente, consapevolmente, con meno
brutalità dei popoli settentrionali, rendendo avvertito l’uomo del perché si
lavori e si produca. “Giova l’industria in quanto cresce la massa di cose utili
apprestate all’uomo; non in quanto la cresce inutilmente, inspirando l’amore
del lavoro per il lavoro, provocando l’affanno di salire e crescendo il
«travaglio» dell’uomo. L’antica sobrietà dei desideri, il lavoro compiuto allo
scopo di rendere la vita più bella dovrebbe rimanere in onore”. Un tempo comodo
che pare scomparso davanti al presto e accelerato che detta i ritmi ebbri della
razionalizzazione ma che Einaudi sembrava voler mantenere quando, prevedendo i
guasti di certa industrializzazione pesante e forzata, sottoscriveva il motto
di Ruskin secondo cui “la vera realtà non è il reddito e neanche l’uso che ne
facciamo; è la vita che conduciamo nel produrre il reddito”.