Questo articolo di Jacques Laurent per il “Magazine littéraire” (1973)
è più di uno scritto d’occasione – dopo che nel 1970, per il centenario della
morte, la critica prendeva a rivedere i severi giudizi del passato e chi non
aveva mai dubitato della grandezza di Dumas aveva di che inorgoglirsi – ed è
più di una “dichiarazione di poetica”, quel lasciapassare caro ai
professionisti della letteratura. Se dichiarazione c’è, è di stile di vita. E
se non c’è, è puro affetto per uno scrittore che al suo tempo aveva suscitato
gli entusiasmi di Lamartine (“posso giudicare i fatti umani”, gli scriveva,
“non i miracoli: voi siete sovrumano, la mia opinione su di voi è un punto
esclamativo!”) e di Victor Hugo (“tutte le emozioni più toccanti del dramma, le
ironie profonde della commedia, le analisi del romanzo, le intuizioni della
storia sono presenti nell’opera sorprendente del grande e agile architetto”).
“Dumas”, scrisse Giovanni Macchia sul “Corriere della sera” (3-12-1970), “è uno di quegli straordinari
personaggi la cui immensa mole riduce all’impotenza i critici più velenosi”.
Jacques
Laurent
mi è capitato di essere ingrato
Mi è capitato di essere
ingrato con Alessandro Dumas, di tradirlo. Alla Sorbona non avevo l’audacia di
affermare quale piacere provavo nel leggerlo, per gli amici serbavo delle mie
ipocrite confidenze: “ieri sera Spinoza mi usciva dagli occhi e ho aperto
Valery, ma mi sono accorto che stavo per scoppiare, così, indovinate un po’, mi
sono addormentato sui Tre moschettieri!”.
Nella giovinezza, Dumas
è stato l’artefice della maggior parte dei miei momenti di felicità: quei
sapori che prolungavo fino alle sei, con una grammatica latina pronta a coprire
, in caso di bisogna, I quarantacinque; quelle veglie in
letto sempre minacciate dalla voce di mia madre che sollecitava a spegnere la
luce; quei bei pomeriggi invernali che, influenzato, mi trasportavo, grazie a
Dumas, su un cavallo, in prigione e in quelle locande dove ogni piatto mi
metteva l’acquolina in bocca.
Dovevo attendere l’età
che non consente di amare ciò che si ama per lasciarmi andare all’evidenza:
Dumas è un gran romanziere. Nessuno alla sua epoca, salvo Stendhal, ha
carezzato meglio certe indefinibili relazioni, come quella che lega Carmaingue
e Sainte Maline, quella della bruna Danglars e della sua bionda dama di
compagnia, tutte e due trascinate sulla strada come Lamiel, ma vestite da uomo
e bruciate da una doppia inconfessabile tenerezza.
Leggo I tre
moschettieri come leggerei Proust, per caso, lasciandomi trasportare da
una bottiglia di vino della Loira sulla stessa china che spinge i giovani a
bere un bicchiere, a raccontare la loro vita attorno a una caraffa, i loro
sogni, le loro guide, l’iniziazione, i Grandi, le donne, finché le bottiglie si
svuotano e viene mattino. Il romanzo francese non ha consacrato che un’opera
all’amicizia: I tre moschettieri. Athos è il solo Alceste romantico a non
essere ridicolo. Si badi: la creazione in Dumas non risulta da una combinazione
fra contrari, che sarebbe banale, ma fra differenti. L’origine della fortuna di
Monte-Cristo è insolita, favolosa, è l’eterno bagaglio dei racconti dove
diamanti, perle e rubini scorrono in cascate sfavillanti. Ma subito Dumas
insinua il sospetto che questi gioielli facciano uno contro l’altro il rumore
della grandine sui vetri e li associa alle speculazioni sulle ferrovie, le
terme, i terreni, il credito, la borsa, i giornali. Monte-Cristo è una
miscela di reportage realistico – il funzionamento di un porto, d’una ditta
commerciale, d’una banca, d’una cabina telegrafica, d’una prigione – e di
favola orientale – tesori insensati, capricci di papi e sultani, droghe
miracolose. Di prodigioso c’è che la miscela funziona, è verosimile, somiglia a
Dumas, al Mediterraneo dei tempi di Dumas e del nostro. Fantastichiamo su ciò
che scriverebbe oggi a maggior gloria di un mare infestato di cospiratori
marocchini, attivisti turchi, trafficanti di droga marsigliesi, mafia, cucina
franchista, petrolieri arabi, Ben Gurion, Tito, colonnelli greci.
La forza creatrice di
Dumas è pressoché identica a quella di Balzac e scriveva ancora più male di
lui. Non bisogna trascurare che la sua opera è anche una galleria di personaggi
fra i quali, contrariamente all’uso romantico, il manicheismo è assente.
D’Artagnan è epico: ci sono dei momenti alla Walter Scott o alla Pixérecourt,
ma anche alla Crébillon, altrettanto scetticismo ed entusiasmo, è completo.
Vilfort si butta nel crimine ma per tappe e senza mai perdere il senso della
probità, il suo gusto della giustizia e anche una certa gentilezza: subisce una
passione, quella dell’arrivismo. Caderousse è un bandito pigro, tanto vigliacco
quanto temerario, maligno e sconsiderato, un meridionale che è salito alla
fortezza settentrionale di Parigi dove risuona lo slogan Arricchitevi! mischiato al grido di rabbia di coloro dai quali l’arricchimento
dipende.
Le Senne, dopo Bergson,
ha sottolineato che c’è nell’istante che viviamo quello che segue, e anche se
noi sappiamo come l’impiegheremo, esso ci è sospeso davanti come una
rivelazione. Tale è la forza creatrice, epigenetica, della durata. “E’”, scrive
Le Senne, “questa singolarità che farà il valore dell’istante”. Non sospettava
di aver scoperto il segreto dei romanzi. E’ romanziere chi penetra in un nuovo
capitolo come si penetra in un nuovo istante, sapendo cosa si vuol fare ma
ignorando la sottile rivelazione che si verificherà. Dumas è romanziere perché
se Calderousse e Andrea fanno colazione insieme, il primo per esercitare il
ricatto sul secondo, la scena banale acquista un valore indimenticabile nella
durata. La vittima ha appetito e il suo seviziatore, fedele alla cucina
mediterranea, prova piacere nel gratinare il pesce, a mischiare l’aglio
all’olio, la noce moscata al chiodo di garofano. Sono inclini a distruggersi
reciprocamente, ma fra i due, come all’interno di una parentesi, c’è un’intesa
che procura loro un attimo di felicità. Nulla cambierà. La trama della
colazione resta intatta, conformemente al piano dell’autore, ma questa
colazione è unica perché non è riducibile alla sua trama. Non si tratta di una
prerogativa tecnica, ma di un dono che permette al romanziere di eguagliare lo
scorrere della vita.
Gli storici della
letteratura che non citano Dumas se non per il suo seccante teatro (poiché ha
avviato il teatro romantico francese) trascurano stupidamente il dono del Dumas
romanziere, a tutt’oggi dunque non pienamente elargito.
“Magazine littéraire” n° 72,
Janvier 1973
Nota
di redazione: I tre moschettieri e Il Conte di Montecristo non abbisognano
di alcuna notazione, tanto sono famosi e ristampati. Diverso ci sembra il caso
de I quarantacinque, un romanzo del
“ciclo dei Valois” che ricordiamo in una vecchia edizione popolare
dell’indimenticato Lucchi, ma che in anni più recenti ci sembra di ricordare
sia stato ristampato, annotato insieme agli altri del ciclo, con una prefazione
del bravo Luigi Baccolo.