Paolo Febbraro

Laughlin. Un erede di Orazio negli Usa anni ’50

In una raccolta di ricordi e divagazioni letterarie sulla Riviera ligure, apparsa anni fa e intitolata Grotta Byron, Massimo Bacigalupo ha rievocato fra l’altro «coloro che vennero a Rapallo per porre a Ezra Pound domande su tutto lo scibile, ma soprattutto sulla poesia». Fra costoro, a metà degli anni Trenta dello scorso secolo, ci fu anche un giovanotto della Pennsylvania, figlio di severi presbiteriani industriali del ferro e dell’acciaio, colto e dinoccolato, di nome James Laughlin. Molti anni più tardi, in un poema autobiografico intitolato Byways (Scorciatoie), quell’ex ragazzo curioso di tutto e sempre innamorato rievocherà l’incontro ligure col “miglior fabbro” della poesia modernista anglosassone: «Dicevi che ero / un poeta terribile, era meglio che / facessi qualcosa di utile per esempio l’ / editore, una professione per la quale / (lasciavi capire) non ci voleva talento e / solo una intelligenza limitata».

Ora leggiamo questi e altri versi nel volume Una lunga notte di sogni. Poesie 1945-1997, curato proprio da Bacigalupo (Guanda, pp. 308, € 22,00), che riprende e aggiorna volumi simili già apparsi tempo fa. E certo, se a questo “poeta terribile” non mancano le leggerezze dell’autoironia, non difetta neppure di una resistenza testarda, di modelli forti ma, nell’estrema trasparenza del suo dettato, quasi invisibili.

La poesia di Laughlin credo sia un episodio del lungo successo goduto dalla lirica latina del I secolo avanti Cristo, fra Catullo, Properzio e Orazio, nel Nuovo Mondo della contemporaneità. Forse alla Roma dinamica dei cenacoli letterari, di una democrazia rumorosa e sempre in pericolo, risponde nelle pagine di Laughlin l’America ruggente degli anni Trenta, lo sparpagliato Gran Tour per l’Europa e l’immancabile, sensuale Italia, le rovine della Seconda Guerra mondiale, la ricostruzione e la coltivazione dei poetae novi pubblicati dalla New Directions, una casa editrice fondata e diretta da Laughlin con lieta passione: dallo stesso Pound a Kenneth Rexroth, dai beat Ferlinghetti e Corso a quelli che legittimamente Bacigalupo chiama nell’Introduzione «gli amici fuoriclasse», come Dylan Thomas, Tennessee Williams, Thomas Merton.

Ciò che conta, tuttavia, è che da questi maestri Laughlin non si è fatto fuorviare, neanche nella forma di un vistoso arricchimento, o nell’asservire la propria limpida voce alla irrinunciabile retorica della modernità. Per lunghi anni poeta essenzialmente erotico ed episodico, capace di confessarsi col candore di un “parlato” fluido ed entusiasta, Laughlin non fa rimpiangere alcuna complicazione. Anche chi dovesse desiderare un maggior peso specifico del verso, una visione a più dimensioni, una più strenua verticalità delle concezioni, non potrà rimproverargli un solo attimo di banalità. Laughlin non si accontenta mai del quotidiano, ma vi si posa con una delicatezza che scolpisce, sempre in vista del Tempo che conserva, illumina e disperde. Gli eventi sono più gustati che trascesi, anche quando la musa della semplicità vuol mantenere nudi e crudi gli anni non più giovanili dei lutti e degli addii, come capita nelle poesie per la morte del figlio suicida o per l’estremo saluto, nella morgue di un ospedale, a Dylan Thomas.

Per Laughlin, del resto, la poesia è proprio ricongiungimento e ricompensa, registrazione futile e insieme irraggiante. Spesso lo troviamo a riflettere sull’impossibile durata dei suoi attimi di grazia e di nostalgia: «Sarebbe sciocco sperare che / qualche mio verso resti in / circolazione. Devo apprezzarli per / il divertimento che mi danno a / scriverli». E in poesie decisamente belle come La scatola, o in apologhi dolceamari come La fabbrica di poesie, Laughlin porta la riflessione a coincidere energicamente con l’immagine, svelando tutta la forza che può sorreggere un’elegia. Infine, si accampano nel volume le fitte visitazioni di quella gran pettegola che è la memoria di chi ha intensamente vissuto: memoria folta e veggente, dai cui particolari emergono mondi e personaggi con malinconica vivacità. La spontaneità un po’ calligrafica delle poesie giovanili diventa allora una più ampia trama di presenze, davvero possedute da chi ne testimonia la perdita. “il manifesto”, 20 marzo 2012