le
voci che corrono
suicidi in capo al mondo
> Leila Guerriero, Suicidi in capo al mondo, Traduzione di Barbara Bretoni, Marcos y Marcos, 224 pagine,14,50 euro
Las Heras, una cittadina in capo al mondo dove gli alberi si sbattono come stracci al vento. Siamo nella Patagonia argentina, ma lontano dalle rotte turistiche. Una regione dove la gente era abituata a vivere con poco, trasformatasi in “terra promessa” per via di un clamoroso boom petrolifero. Siamo a un soffio dall’anno 2000. Tutti si preparano ad accoglierlo con feste, balli, fiumi di alcol, fuochi d’artificio. Ma il 31 dicembre 1999, per la comunità del paese, è un giorno da incubo. Juan Gutiérrez – ventisette anni, famiglia di solide tradizioni – si toglie la vita. Il fatto è che Juan è il dodicesimo suicida – secondo alcuni il ventesimo – in una manciata di mesi. C’è chi parla di sette sataniche, altri danno la colpa ai “troppi indios sepolti in zona”. Cosa si cela, veramente, dietro questo baratro? Leila Guerriero parte da Buenos Aires per Las Heras, e indaga. Domanda, domanda, domanda. Ma dalla polvere, al vento e dal deserto non arrivano risposte chiare. Arriva invece la voce – anzi, un coro di voci – dei giovanissimi suicidi, e delle persone vicine alle loro speranze, ai loro sogni. La voce di Mónica, che si dipingeva le unghie di nero e sul muro uomini incappucciati, streghe, teschi. La voce di Carolina, che prima di mangiare una mela e chiudersi in camera per sempre, accompagna il figlio di tre anni all’asilo. O la vitalissima testimonianza di Pedro, regina del deserto e insegnante di inglese, di Naty, tenutaria del bordello, di Ricciolo, il più bravo DJ della Patagonia. Con il ritmo di un thriller, Leila Guerriero ci conduce ai margini del Grande Vuoto, in un luogo assoluto dove “il tempo è un fiume di pietra e ciò che conta è drammaticamente altrove”. Come non pensare a mille non luoghi molto più vicini a noi?
L’editore
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Oro nero a Las Heras
La provincia patagonica
di Santa Cruz, governata dal 1991 al 2003 da Nestor Kirchner, poi divenuto
presidente dell’Argentina, è universalmente famosa per le bellezze del
ghiacciaio Perito Moreno. Ma non è della Santa Cruz decantata dai turisti
stranieri che parla l’intenso reportage di Leila Guerriero (Suicidi in capo al mondo, Marcos y
Marcos). Siamo infatti a Las Heras, la zona dei pozzi petroliferi:
desolatamente piatta e arida. Cespugli spinosi come unica vegetazione . Quando
il primo insediamento sorse, all’inizio del Novecento, le pecore erano la sola
risorsa: animali col vello pesante, adatti a sopravvivere a un territorio
inospitale dove un vento impressionante scartavetra ogni cosa a cento
chilometri l’ora e la terra si sgretola a venti gradi sottozero.
La fortuna di Las Heras consisteva nel trovarsi lungo i binari della Ferrovia
Patagonica che congiungeva lo scalo marittimo di Puerto Deseado con i lontani
centri di produzione della lana. Finché, negli anni Sessanta, la scoperta del
petrolio – uno dei più grandi giacimenti della Patagonia – e, negli anni
Settanta, l’apertura dell’impresa statale YPF apportarono grandi cambiamenti:
le vie di terra battuta vennero asfaltate e il centro si ingrandì a dispetto
del territorio inospitale.
L’ottimismo del boom economico quasi fece passare inosservata, nel 1978, la
chiusura della ferrovia che per tanti anni aveva servito gli interessi dei
produttori di lana. Che importava? Da ogni parte del Paese giungevano
immigrati: giovani, uomini soli a cercare fortuna. E, come prima conseguenza di
questa situazione, arrivarono valanghe di prostitute: un po’ ovunque sorsero
bordelli a buon mercato, chiamati eufemisticamente bar, wiskerie, cabaret. Ne
sono sopravissuti tanti: ora coi muri scrostati e, alla porta, un lampioncino
rosso che trema nel vento; come, per esempio, il “Vìa Libre”, al fianco del
cimitero: ché “l’argentinità è fatta di tante cose, ma soprattutto di quella
mania di mettere il sesso e la morte così vicini. Qui si scopa, qui si muore…”.
E, seconda conseguenza, vista la nomea di città del peccato, arrivarono i
predicatori: evangelici, mormoni, testimoni di Geova.
Gli anni Novanta si aprirono con l’eruzione del vulcano Hudson che ammantò di
cenere l’intera zona. Triste presagio… Ché poco dopo la privatizzazione
dell’YPF, comprata da Repson, segnò per Las Heras una brusca inversione di
tendenza.
Il paradiso economico
si sgonfiò in un attimo: l’occupazione calò bruscamente, molti furono costretti
a far di nuovo le valigie, parecchie case restarono vuote; inoltre aumentarono
in maniera impressionante gli incidenti sul lavoro e cominciò una serie di
scioperi durissimi, a volte sanguinosi. Questa è la situazione descritta da
Leila Guerriero nel suo viaggio del 2002, compiuto nella volontà di indagare
sull’alto numero di giovani di Las Heras che negli ultimi anni si è tolta la
vita.
Per esempio, Liliana, vent’anni, sposata: si è sparata un colpo di revolver
alla tempia, prima di cena. Monica, diciott’anni, studentessa: è andata a
comprarsi una scatola di cioccolatini, si è buttata sul letto ad ascoltare
musica e si è sparata col fucile da caccia del padre. Luis, diciott’anni,
preparava l’esame di ammissione a Medicina: si è impiccato con il fil di ferro
nel capannone del nonno. Carolina, diciannove anni, nubile con un figlio: stava
preparandosi a una festa serale, si è strangolata con una cintura legata al
letto a castello del suo bambino.
Elizabeth, vent’anni, fidanzata: preparava la cena, si è impiccata nel vano
della porta. Juan, ventisette anni, celibe, buon calciatore: si è impiccato a
un palo della luce… E’ tremenda la via crucis di questa Patagonia vuota e
sconosciuta ai turisti, che la Guerriero racconta con voce sensibile e al tempo
stesso asciutta.
I numeri parlano da soli: Las Heras ha attualmente 8400 abitanti, quasi la metà
sotto i diciott’anni.. dei maggiorenni, la metà lavora nell’industria
petrolifera, gli altri sono disoccupati. Rimanere incinte a quindici anni,
senza prospettive di matrimonio, e diventare nonne a quaranta è la regola per
le donne. Un unico istituto scolastico superiore: privato, con materie che
riguardano esclusivamente l’industria petrolifera; se si vuole studiare altro
bisogna andarsene. Niente cinema, niente edicole, niente internet (perlomeno
fino al 2004), una linea telefonica che più volte al giorno si interrompe a
causa del vento. Una vita vuota: si sta tappati in casa, visto che non esiste
una piazza, né punti di ritrovo comuni. E, su tutto, un velo grigio di polvere.
Se sei giovane e non sei forte, non resisti. Da qui un tasso spaventosamente
alto di alcolismo e di suicidi tra i ragazzi.
Certo la gente fa fatica ad accettare che i propri figli fuggano in questo modo
dalla vita che gli adulti hanno scelto per sé, quando negli anni Settanta
immigrarono spinti dal miraggio della ricchezza facile. Preferiscono dare la
colpa dei suicidi agli antichi cimiteri indios della zona o all’influenza di
sette sataniche. Ché per una piccola comunità è sempre più facile buttare la colpa
a elementi esterni, piuttosto che riflettere sul senso di questa provvisorietà
che si respira in questa Patagonia priva di radici, segnata dalla sindrome
della valigia sempre pronta dietro la porta. Perché Las Heras è il Sud del
mondo. Un Sud da cui tutto è lontano. Un Sud dove la brutalità naturale del
paesaggio e la solitudine storica hanno determinato una situazione asfittica di
perdita della vitalità. E la giovane generazione, a cui sono state date in
eredità solo apatia e mancanza di senso, ha trovato l’unica via d’uscita nella
morte volontaria.
Laura
Pariani, “Il Sole 24 Ore”,
29 luglio 2007