Carlo Luigi Lagomarsino
George
Lakoff e la libertà
Dopo Berlin, Lakoff. E dico subito che ci voleva. Il linguista di Berkeley discettando del termine “libertà” (La libertà di chi?, Codice, 2008) si affida a tre diversi registri che per lo più riesce ad intersecare con abilità: la lettura analitica, quella psicologica e la critica all’ideologia, in particolare al “libero mercato” inteso come ideologia. Ovviamente la perizia specialistica dell’autore (con Mark Johnson) di Metaphors We Live By (Un. Chicago Press, 1980, da noi pubblicato presso Bompiani: Metafora e vita quotidiana, 1998) c’è, ma c’è in modo discreto. Soprattutto c’è in questo libro un’analisi perfetta del pensiero conservatore in proposito. Si può dire che Lakoff lo smonti in ogni sua asserzione, anche se generalizzazioni psicologiche come quella del “padre severo e del genitore premuroso” potevano essere evitate proprio quali generalizzazioni, ancorchè tornino poi utili (e cognitivamente efficaci) al momento di affrontare il rapporto fra libertà e religione. George Lakoff scrive pacato, non si deve tuttavia pensare a una scrittura priva di emozioni. Ad ogni modo, qualora la sua prosa si accenda allorché intenda muovere critica all’ideologia, nulla è sottratto alla chiarezza della riflessione sul libero mercato. I naturali scambi fra gli uomini – che avvengono in contesti assai variabili e complessi, non semplicemente materiali – sono ridotti dall’ideologia liberalistica alla nozione per l'appunto di “libero mercato”. A tutta prima sembrerebbe che la salutare concorrenza sia salutata quale benvenuta panacea, quando in verità proprio perchè ci si muove per arginarla, ci si ritrova fra grandi strutture burocratiche e impersonali quali sono le corporation. L’ideologia liberalistica, attraverso l’uso che fa del termine (che altro non è) di proprietà, spalleggia queste situazioni come “libero mercato”. Persino molti di coloro che definiscono il loro liberalismo attraverso l’aggettivo libertario, non si sottraggono alla regola, solo che, a questo punto, l’auspicata anarchia fatta di spontanea contrattualità, è regolata non più da un governo ma da una morale della quale non si discute la sua presunta origine superiore. Una vera e propria rinuncia al pensiero (e su questo, parrà strano, sono d’accordo col mio presunto antagonista su queste stesse pagina, Wolf Bruno) che vorrebbe far digerire l’indigesto.