Jean Montalbano
massimalismo
di La Monte Young
Ingrato compito convincersi del fatto che
se le orecchie fischiano ciò sia dovuto non tanto a qualcuno che ci nomina
(come vorrebbe un detto popolare) quanto al trovarci dentro un pezzo di scuola
La Monte Young. O che muovere una sedie e tavoli in una biblioteca sarebbe
omaggiare lo stesso compositore, come restare in silenzio in una sala era
riconoscere i diritti di Cage. Di queste battute l'interessato è a conoscenza,
ammettendo che è solo questione di strutture,concetti e cornici in cui
trasmettere delle manifestazioni fisiche, dando nomi e numerazioni ad eventi
che già c'erano e che saranno in un flusso dall'inizio dei tempi. Più arduo
considerare quelle “prescrizioni” alla luce delle torsioni misticheggianti cui
si piegheranno le sue musiche successive.
Dedicando al compositore americano La
Monte Young (e alle ricadute e
deviazioni post-minimaliste) una piccola monografia per l'editore “Le Mot et le
Reste”, Joseph Ghosn traccia anche un'autobiografia e una personale
ricognizione di un innamoramento. Sospetta che molto del rispettoso mistero che
già promana da quel nome (ma ricordiamo un omonimo architetto anglo-napoletano)
origini più dalla scarsità di supporti consultabili che dall'avvertita esperienza
di un'opera che pure ha toccato e girato la boa del mezzo secolo. Per parte sua
Ghosn confessa di essersi imbattuto in uno dei supposti padri del minimalismo
in un disco degli inglesi Spacemen 3 e non studiando le carte di un seminario
di nuova musica a Darmstadt o di una raccolta fluxus. In questo segue le frange
di certo rock post-noise o di quel metal estremo che ultimamente ha eletto LMY
a campione di ogni drone music ovvero di tutto quanto faccia ronzio o bordone,
meglio se a livelli sonori insopportabili o apertamente dolorosi. Già il Lou
Reed di Metal Machine Music ne citava il nome (pur storpiandolo) ma nel suon
caso i gradi di separazione erano molto meno di sei, se solo ricordiamo che nei
Velvet Underground transitarono membri come McLise e Cale (che collaborarono
pure al più noto gruppo di LMY ovvero il Theatre of Eternal Music) e se teniamo
per buono quanto riferito da Jonas Mekas circa la diretta influenza di quei
suoni lunghi e ostinati sulla fissità e “monotonia” dei primi film di Warhol.
I fans odierni si riconoscono perché
rievocano con un piacere lancinante il mancato acquisto di una copia in vinile
del “disco nero” (Edition X,1969) o del Dream House (Shandar,1974) come
se qual mancato possesso avesse alimentato con più forza le fiamme
dell'ammirazione, come se il mito crescesse nella frattura di una fruizione
rinviata o solo fantasticata. Noi siamo di quelli che pur avendo una copia del Well
Tuned Piano con un certo imbarazzo e sottovoce confessano ai neo adepti di
non essere mai arrivati alla decima facciata del box in cinque vinili (ma lo
stesso vale per l'Opus Clavicembalisticum di Sorabji o, rimanendo fra vicini
ex-minimalisti,per la Musica in 12 parti di Glass). Forse il ricordo gioca
sporco, ma la “creazione” romana, ascoltata negli anni settanta, più
concentrata e meno imponente fu maggiormente decisiva quanto a sverginamento
d'ascolti (e comunque tre ore di attenzione sono una buona performance).
La durata dell'opus magnum per piano
(anno 1964 e seguenti e che, nelle ultime esecuzioni-improvvisazioni, ha
superato le sei ore) congiunta alla meticolosa ritualità che ne circonda la
fruizione ha segnato anche per i sordi il distacco di LMY dal clima
avanguardistico degli esordi, in cui gli eventi proposti, ben più degli
happenings, rischiavano, secondo lo stesso autore, la “riduzione” o il
declassamento a scherzo e gag.
Dopo gli anni d'apprendistato
californiani, il soggiorno new-yorkese e la cura dei concerti per il loft di Y.
Ono se da un lato avevano consolidato la scelta
per l'aspetto mentale ed astratto del comporre artigianale che, secondo
la lezione seriale, voltava le spalle al pubblico e, per non cadere nella
tentazione dell'intrattenimento,
rinunciava a piacere, dall'altro alimentavano l'equivoco del
divertissement, macchiandone il rispettabile curriculum di studi seri e di
sovvenzioni accademiche, ventilandone insomma un'immagine da buontempone.
Mentre tutto per Maciunas poteva essere
Fluxus purchè tenesse lontana la noia e promuovesse buonumore, LMY rivendicava
specificità e motivazioni profonde della propria storia: la stessa personale Anthology di artisti (del
1963) esorbitava dall'ambito strettamente Fluxus, testimoniando ciò che era
stato più che indicare il suo futuro.
Se prima non pareva necessario che ci
fosse qualcuno ad ascoltare suoni perfettamente in grado di condurre una vita
autosufficiente, ora andava ripreso il filo delle ostinazioni weberniane alla
luce delle conoscenze tradizionali, un passo in qua prima della decisione
bachiana. Dall'evento singolo alla musica eterna, dai dettati di partiture che
danzavano sugli abissi cageani a nuove cornici temporali in differenti
situazioni ed ambienti.
Dopo il gaio nichilismo si invocava un
nuovo inizio come ripresa di possibilità scartate e inespresse negli ultimi secoli
dalla tradizione occidentale.
La Composition 1960 no. 3
dettava:” Annuncia al pubblico quando il pezzo comincia e finisce se c'è un
limite di durata. Può avere qualunque durata. Poi annuncia che chiunque può
fare ciò che desidera per la durata della composizione”; ora il “teatro di
varietà” , levate le tende, avrebbe lasciato spazio ad una più strutturata
“Dream House” cui partecipare come ad una sacra funzione.
Aprire e chiudere un pianoforte o
governarlo con balle di fieno e secchi d'acqua potevano bastare a far felice
Maciunas, senza rispondere alla domanda d'assoluto dell' ex ragazzo di campagna
giunto persino in Europa a studiare con Stockhausen e Tudor, poco disposto a
mediare in un compromettente intrattenimento le pretese radicali di partenza. Già
in quegli anni newyorkesi alla coltivazione di un ego per niente minimalista si
accompagneranno incertezze quotidiane e precarietà da tempi grami; LMY non
tacerà come, nonostante il nome suo apparisse sulle pagine di Vogue o Esquire,
spesso lo avessero salvato dalla fame le scatolette con cui venivano saldati i
lavori di Maciunas e che questi a sua volta gli girava. E successivamente
sempre sarà in attesa di qualche “grant” o donazione da parte di una borghesia
distratta o resa inquieta da cicliche crisi.
Non più “eventi” quindi ma concerti
sempre più diradati e controllati, fino alla scarsità richiesta dalla diligente
e “religiosa” preparazione di ambienti e installazioni, diventati improduttivi
ed antieconomici nel circuito delle gallerie che lo aveva fin lì ospitato. A
questo punto per lui ci sarebbero voluti mecenati stravaganti o figure
aristocratiche, come quella rappresentata da S. Ray nel suo film “Sala da
Musica”(Jalsaghar), disposte ad mandare in rovina la famiglia e dilapidare il
patrimonio pur di offrirsi i servizi dei migliori musicisti e primeggiare nel
potlatch dei concerti allestiti tra vicini possidenti.
Webern e la staticità di certo
serialismo, gagaku giapponese, pittura taoista, raga indiano, il vento dentro e
fuori la casa di legno nell'Idaho,le risonanze dei pali telefonici: altrettante
suggestioni di cui, trasfigurandole e trasponendole in un altro sistema, si
nutrirà la Dream House con i suoni tenuti a lungo e le luci color magenta.
In essa progressivamente sembrerà
chiudersi lo stesso compositore, erigendo anzitempo un monumento a se stesso,
isola sonante, Patmos-Manhattan, da cui escludere distrazioni e compromessi con
un sistema-arte non più in grado di attendere il recupero di investimenti
improduttivi.
Nel tentativo di abbandonare gli incerti
della strada, su cui si avventurava il maverick americano, per i conforti
promessi dalla casa-guscio della Tartaruga LMY si darà ad un puntiglioso lavoro
di sistematizzazione al cui capo c'è un podcast celeste da cui scaricare, per
ispirazione, sequenze di accordi nascosti ma originari.
Se Fluxus, dietro una fisicità esibita e
puntuale (tracciare una linea e seguirla ovvero spingere un pianoforte contro
un muro) ridicolizzava l'autorità dell'opera, la macchina mitica del suono
originario aggirava il divieto consentendo, grazie alla “just intonation” , di
immaginare altro in utopia, fosse pure solo (ma per i minimalisti sarà tutto)
l'appena percepibile ronzare delle cose che fanno eco all'eterno zampillio del
divino eckartiano. Anche la “miseria” periodica di onde sinusoidali, quando non
i conforti tradizionali, specificatamente indiani, permetteva di ri-incantare
il mondo pensato oltre quel muro disperante contro cui si accanì Fluxus.
Già si era compreso come, per successive
ascesi e atti di spoliazione, l'autore dei Drift Studies avesse fatto
secessione dal ribollire di note controculturali tra cui mosse i primi passi
(una gioventù trascorsa tra LA e S. Francisco gli fece frequentare i nomi e i
posti giusti tanto che qualcuno diceva sapesse sempre dove trovare il miglior
fumo in città, per la disperazione dei parenti mormoni). Nel suo caso erano
altre le parentele e ascendenze rivendicate: dal vaso di Pandora dei soliti 4'33”
cageani rispuntavano la volontà di inizio assoluto e radicale dei quadrati
di Malevic e della tunica bianca di Avraamov, la resa del sannyasin e la
rinuncia all'ornamento, l'essenzialità dei mezzi e la fioritura controllata del
canto kirana.
D'altra parte l'investitura
di”compositore” gli era stata conferita (fin dal Trio for String ,1958)
da docenti a loro volta allievi di Schoenberg: il richiamo alla materialità del
suono trattato ed elaborato fino ad una straniante “pitagoricizzazione” sarà
spesso frainteso e sottostimato da chi delle sue composizioni apprezza
soprattutto il lato estatico-stordente, l'opium music deprecata dalla
perspicace nonna. Le veloci permutazioni e combinazioni del Piano ben
Temperato dovranno molto alla tecnica sviluppata par anni al sax sopranino
fino alla scoperta di fenomeni acustici quali i battiti periodici sospesi in
aria come nuvole sul piano. Se di utopia si tratta, la matematica, la ratio non
le sono estranee e con esse una certa volontà “totalitaria” di controllo, fino
alla categorizzazione delle relazioni tra suono e tipo di “feeling” evocato,
tra frequenze e stato psichico risvegliato.
La giusta intonazione facilitando la
catalogazione-numerazione del feeling ripete e richiama senza approssimazioni,
una volta immagazzinato, il feeling voluto. Solo essa consente, una volta
conclusa l'avventura del temperamento equale, di ricatturare l'ampiezza e
profondità dei feelings associati ai modi greci e orientali, e di richiamarli
esattamente, con l'aiuto del sistema di numeri razionali, ad ogni ripetuto
ascolto.
Nuovi intervalli per nuovi feelings, ma
pure ripetizione di quanto era sfuggito alla vecchia notazione attraverso il
recupero della trasmissione (e dell'autorità) orale (e in tal senso vanno lette
le recenti collaborazioni con il violoncellista C. Curtis).
Adesso è il tempo della non distrazione e
del non divertimento nell'epoca delle musiche discrete, compatibili con
attività più serie e produttive. Da qui la richiesta di attenzione e dedizione
che, sequestrando i sensi per durate sproporzionate al veloce consumo e
all'ascolto distratto, suonano un po' come disperata protesta del compositore
“assoluto”.
Si precisano i disegni di ambientazioni e
costruzioni sonore con leggi e ritmi autonomi in cui entrare e dimorare
fondendovisi, a convalidare i vecchi miti sull'origine del mondo sconvolgendo i
cicli del quotidiano (si sa che per LMY il giorno non dura ventiquattro
ore...). Al loro interno i toni tenuti lungamente sanno corrispondere alle
strutture temporali di lungo periodo e la periodicità è il grimaldello per
intuire tempo e struttura.
Mente e corpo sono naturalmente accordati
e intonati a strutture periodiche e
per gradini successivi, studiando il
suono (armonicità, periodicità, toni sostenuti, suono cosmico, struttura
universale) intendono la struttura vibrazionale dell'universo.
Il musicista si immagina vuota canna di
bambù risonante accordata ad armonici infondati; c'è qualcosa di ingenuo e
commovente nelle sottolineature di LMY: dovevo farlo, non è uno scherzo, è
proprio ispirazione ed intuizione.
Alla chiamata, il compositore ha risposto
con resa totale: come l'imperatore è sempre tale, LMY, musicus somnians
musicus, pure quando sogna è musicista.
E
mentre il suo maestro indiano Pandit Pran Nath, ancora credente,
concepiva la musica come puntuale servizio del fedele verso il divino, per il
discepolo americano vale forse quanto affermava il Faust goethiano:” Gefühl ist
Alles “. Dove è soprattutto questione di feelings, della stringente e
scrupolosa religione del raga resta il ritualismo di un'incerta religiosità
ridotta all'osso della precisione protocollare.
La tabella di corrispondenze e richiami,
l'introduzione successiva di nuove aree accordali rispecchieranno nella
ricchezza combinatoria lo sfarfallio di un cielo ormai svuotato delle sue
pitagoriche armonie ma ancora in grado di comunicarsi nell'abbandono estatico
al flusso degli armonici.
“Fogli di
Via”, Marzo 2010