Quella che segue è
la prefazione all’edizione italiana degli scritti di Lester Bangs – a cura di
Greil Marcus – pubblicati da Minimun fax nel 2005 col titolo Guida ragionevole al frastuono più atroce nella traduzione di Anna
Mioni.
Wu Ming 1
Prefazione all’edizione italiana
di Psychotic Reaction
and Carburetor Dung
A essere sinceri sono tanto alienato e schifato da
chiedermi se davvero voglio fare qualcosa nei prossimi anni. Vedi, la questione
è: sta diventando tutto come la rivista People. Tutta la radio, tutta la stampa, tutto quanto sta diventando
così, anche l’industria editoriale. Ieri parlavo col mio agente e gli ho
chiesto: «Pensi che di questo passo l’unica cosa vendibile sarà la
biografia-marchetta di una celebrità?», e lui ha risposto: «Non lo so».
Capisci, io me ne sto qui e mi chiedo se, come scrittore, non sarebbe meglio
lasciar perdere tutta questa roba. Non mi metto certo a fare sviolinate
strappalacrime, perché, come ho detto prima, so che mi è andata bene, non devo
alzarmi la mattina e andare a lavorare in fabbrica dalle nove alle cinque o
qualcosa del genere. E ho delle entrature, e tante altre cose, quindi non
dovrei fare pena a nessuno. Ma allo stesso tempo, tutti quelli che conosco sono
completamente alienati, scoglionati, nauseati da tutto, e so che gran parte di
quelli che lavorano nei media e ci propinano questa roba sono alienati come lo
è il pubblico. Il pubblico compra solo perché non gli viene offerto
qualcos’altro. E, personalmente, mi chiedo quand’è che la gente comincerà a
dire: «No! Mi rifiuto, non ne voglio più!» Lester Bangs, intervista a News
Blimp, 1980
Santo beatnik, Lester. Critico maudit, pazzo genio della
scritturagonzo, visse veloce d’arte e d’amore, incarnò lo spirito del
rock’n’roll, morì giovane e povero ecc. ecc.
Di là dall’Atlantico, dopo anni di ’sti cliché, c’è chi riflette su Lester
in modo nuovo. Qui da noi tocca invece attraversare quella fase, da zero come
fosse appena morto, ché ben poca gente sa chi sia ’sto Lester Bangs.
Sfortunato, Lester, in Italia. Articoli in oscure fanzine che li conti
sulle dita d’una mano, e poche traduzioni cagnesche, che dico,ringhianti in
faccia al lettore tant’erano brutte. Niente di più.
Urge dunque un po’ di lavoro sporco. Cliché rigorosamente tra virgolette:
Leslie Conway Bangs detto «Lester» (1948-1982), il critico rock più influente
(«seminale») «di tutti i tempi» (non c’è gara, non c’è mai stata). Scrittura
influenzata da Kerouac e Burroughs. Sul finire dei Sixties, con Richard Meltzer
e Nick Tosches («the Noise Boys») si mette di gran lena a «gettare le basi»
della critica rock «militante» («in anticipo di ben quattro mesi e mezzo su
chiunque altro», dirà Meltzer).
In pochi anni, Lester entra nell’empireo del New Journalism,
per capirci: Tom Wolfe, Gay Talese, George Plimpton, ancorché più giovane di
tutti costoro e in posizione defilata, nel «sottogenere»gonzo (narrazioni
picaresche imbottite di sostanze psicotrope), capostipite Hunter S. Thompson, e
nel gonzo dentro un ulteriore sottogenere, lo scrivere rock (che
non è semplicemente lo scriveredi rock).
Grafomane panatlantico, viene pubblicato su Rolling Stone,Creem, NME e
il Village Voice. Canta in diverse band e incide qualche disco
(mentre scrivo ascolto Juke Savages on the Brazos, Lester Bangs and
the Delinquents, mp3 a 128k trovati su una scarna pagina web).
Nel mondo di favella inglese è una «leggenda», Lester, canonizzata
nell’antologia postuma che avete tra le mani (1987, a cura di Greil Marcus),
nel film Almost Famous di Cameron Crowe (2000, Lester
interpretato da Philip Seymour Hoffman), nella biografia Let It Blurt scritta
da Jim DeRogatis (2000) e in un’antologia più recente, Mainlines, Blood
Feasts and Bad Taste(2003, a cura di John Morthland).1
Ultimi trivia. Lester figura in una canzone dei REM: «It’s
the End of the World ecc.» È menzionato accanto a Leonard Bernstein, Leonid
Breznev e Lenny Bruce, lo scenario è una festa di compleanno. Poi ci sono i
Ramones di «It’s Not My Place». Lester è nominato accanto a Phil Spector, Jack
Nicholson e Clint Eastwood.
Curioso che entrambe le band chiamino in causa Lester per parlare del mondo
e del mondano, in versi composti di nomi di vip. Non è mica un vip, Lester, è
anzi l’outsider perenne, ostile a qualunque door policy e
buttafuori. Piuttosto che entrare nel club «esclusivo» s’unisce agli esclusi sul
marciapiede, fraternizza coi respinti dal dress code.
Lester ha/incarna un’idea del rock’n’roll comunitaria, democratica,
solidaristica. Nemico d’ogni pretenziosità e solipsismo, fa a pugni con lo zeitgeist degli
anni Settanta, negli Stati Uniti (e nel rock) periodo di Restaurazione come
dopo il Congresso di Vienna: parrucconi incipriati, verticismo, culto della
celebrità, virtuosismo «progressivo» fine a se stesso... «Peccato che ti sei
perso il rock», dice Lester a William Miller all’inizio di Almost
Famous.
Lester contrasta la Restaurazione esplorando, procedendo a tentoni, vagando
nella notte in cui tutto il rock è grigio. Propugna «altri concetti di
bellezza», glorifica «il frastuono atroce» fin quasi a condividere l’hobby di
Stan Murch, personaggio dei romanzi di Donald E. Westlake. Murch compra e
ascolta solo dischi con rumori di auto in corsa: accelerano, scalano di marcia,
rallentano, arrivano vicino, di nuovo s’allontanano. È nel mood più oscuro
dell’epoca sentire sinfonie dentro Metal Machine Music. Perlomeno,
Lou Reed è convinto di avercele messe.
Sa scrivere, Lester. Da piccolo scrive sequel alle storie di Verne, Stevenson,
Dumas. Prima adolescenza, si tuffa nella letteratura di genere, fantascienza
soprattutto, space operas, roba osteggiata dalla madre testimone di
Geova: la Bibbia non parla di vita su altri pianeti, quindi non ce n’è, fine
del dibattito.
La scoperta della Beat Generation ha il prevedibile effetto disinibente.
Intendiamoci, le solite cose: scrittura automatica, fame d’esperienza, tendenza
a «innamorarsi all’istante» (del mondo, di una donna, di una canzone), voglia
di scrivere «come un danzatore che agita il culo», tristezza quando il mondo
delude le aspettative. Ma comprimete tutto questo nella recensione di un lp,
massimo tre cartelle, e avrete una cosa diversa, lo stile che apre a Lester le
porte di Rolling Stone. Su quelle pagine scriverà il necrologio di
Kerouac, e il cerchio potrebbe anche chiudersi.
Ma non si chiude. Dopo un po’ Rolling Stone gli va
stretta, inoltre il direttore Jann Wenner lo caccia (non parla bene dei dischi
dei vip), rieccolo a Detroit, la città di Creem, rivista più
free-form con cui può andare a briglia sciolta. Da quelle pagine impone l’uso
delle espressioni «punk rock» e «heavy metal». Scrive di Mingus e di free jazz:
Albert Ayler, l’ultimo Coltrane. Recupera la British Invasion versante
«duro» (Troggs e Yardbirds) e il garage rock più oscuro modello Count Five.
Analizza il rock-blues malarico e sghembo alla Captain Beefheart. Idolatra i
Velvet Underground, o meglio, Lou Reed: acquitrini d’inchiostro sul loro
«rapporto di amore/odio». Fa di Stooges e MC5 due cavalli di
battaglia. S’addormenta ogni notte ubriaco con Iggy o i Black Sabbath in
cuffia.
La metà dei Seventies lo trova non poco scoglionato, c’è siccità nel mondo
del rock. Si sposta a New York in cerca di una fonte, e la trova: pianta le
tende nell’oasi del CBGB’s: Ramones, Television, Voidoids, Patti Smith
Group.
Pian piano si scosta dalla scrittura spontanea, s’avvicina di più al
modello dello scrittore stone cutter, che lima, cancella, riscrive,
cesella. Non proprio la «fatica nera» d’un Fenoglio, ma nemmeno il rotolo di
carta di On the Road. Non è il solo: Richard Meltzer afferma di
scrivere ormai «più lento della merda ghiacciata».
La «grande truffa rock’n’roll» è l’ennesima ustione all’anima. «Ogni
decennio un auto-raggiro», così Lester riassume la propria vita. Gemebondo,
batte le vie di Manhattan e indaga sulle morti di Sid & Nancy. Scopre di
far parte della schiera dei carnefici.
Prova a trasferirsi in Texas ma cambia idea. Vuole disintossicarsi da
alcol, speed e Romilar. Alle serate degli Alcolisti Anonimi c’è anche Lou Reed.
L’età della fattanza da ribelle/«maledetto» è finita, o almeno dovrebbe. Certe
cose divertono se le scrive Bukowski (a volte, nemmeno sempre), ma scritte da
uno qualunque dei millanta epigoni sparsi per l’Orbe... Il mercato
dell’attenzione è saturo e farcito di déjà entendus. Il
ribelle/«maledetto» è animale da sacrificio per i fighetti, che gli caricano la
molla e vivono, tramite lui, trasgressioni vicarie. Infine il
punkabbestia torna da papà, ed è pure questo un cliché nauseabondo, tanto che
fa schifo enunciarlo.
«Basta con le stronzate sull’amare la morte, una persona ha il dovere di
trarre il meglio dalla vita», scrive Lester. C’è chi lo liquida con la parola
tabù: moralista. Sempre più sovente fanno capolino nella sua prosa
parole come decenza e integrità.
Il «nichilismo» è il nemico ed è bello avere un cuore, ma iniziano gli anni
Ottanta, decennio antisociale anzichenò. Comincia l’era del videoclip e di MTV,
trafficante di celebrità immeritate. «Il videotape è freddo», dice Lester. Come
lui la pensa Jack Horner inBoogie Nights: «Se si vede di merda, e si
sente di merda, allora dev’essere merda».
Parla di andare in Messico a scrivere «il suo romanzo», Lester, e pare non
poterne più del rock. Eppure durante un incendio, fuggito di casa in mutande,
ci ripensa e di corsa rientra. Per salvare che? La sua copia di Metal
Box dei PIL.
Poi muore.
Non nell’incendio, s’intenda. Per cause sconosciute. Si dice sia colpa del
Darvon, un tranquillante. Boh. Molti anni dopo Jim DeRogatis mostrerà a un
luminare il referto dell’autopsia. «Frettoloso e superficiale», è il referto
sul referto.
La critica al «culto di Lester» inizia ben presto. «All’indomani della sua
morte, molti cercarono di mostrare che abbaiava ma non mordeva» (Meltzer). Si
confonde lo stile di Lester con le sbrodolate d’inchiostro dei molti epigoni,
che di lui non hanno capito niente. «Non imitate me», consigliava
agli aspiranti critici rock. Difatti, non è quella l’eredità di Lester. E qual
è, di grazia?
Alcuni anni fa un personaggio della bohème bolognese utilizzava a scopo
intorto una frase d’apertura: «Parlami un po’ di me. Puoi anche esprimerti con
parole tue». Che ricorda un po’ una celebre battuta, forse di Cochi Ponzoni:
«Ma lo sa che lei è sempre stato un mio grande ammiratore?»
La «rockstar», il «divo», la «celebrità», ci ordinano di parlare di loro,
lo fanno con la loro telepresenza e propaganda mercantile (quello hype che
secondo Lester era «il nemico n.1»). L’industria culturale rende l’opera
secondaria rispetto al personaggio, vende quest’ultimo e in subordine la prima.
L’Autore diventa Autorità, la quale appunto dà ordini.
Lester combatté una guerriglia incessante per riportare al centro della
riflessione la musica, l’opus, e ridimensionare chi la suonava. A ragione,
considerava l’artista un tramite, un intermediario, latore di una
testimonianza, uno che svolge una funzione sociale. L’immagine della «rockstar»
è l’esito dell’autonomizzazione del testimone rispetto alla testimonianza che
reca. Il culto della celebrità è un «feticismo dell’intermediario».
Parlando dei Led Zeppelin, degli Stones, di Elvis, Lester cartografava
(talvolta letteralmente) i gradi di separazione tra artista e pubblico. I vari
Presley, Jagger o Plant vedevano la comunità umana allontanarsi sugli orli di
cerchi concentrici sempre più larghi.
Svariate volte, negli scritti bangsiani, ricorre la metafora della rockstar
come colui o colei che si costruisce il proprio campo di concentramento. È
quello che ha cercato di dire Roger Waters in The Wall: c’è
qualcosa di fascista, nel rock. Il concerto rock come comizio nazi («In the
Flesh») e l’impossibilità di uscire dal meccanismo: «Stop! / Voglio andare a
casa, / togliermi quest’uniforme e mollare lo show / Ma sto aspettando in
questa cella perché devo sapere: / sono stato colpevole per tutto questo
tempo?»
Non a caso Lester usava espressioni come «fascismo edonista» e
«divertimento forzoso». L’obbligo a sembrare felici è tipico delle società
totalitarie, quella dei consumi lo è fuor di ogni dubbio e, quanto ai consumi
giovanili, non c’è ambito in cui il totalitarismo sia più denso e
colloidale.
Lester sottoscriverebbe senz’altro le osservazioni del filosofo e
psicanalista Miguel Benasayag:
Quando seguiamo le istruzioni e facciamo di tutto per
arrivare a quello che ci è stato proposto come modello di felicità, siamo
doppiamente infelici, perché il risultato atteso non si produce. La famosa
frase: «ha tutto per essere felice» non significa nulla. Non esiste un tutto
oggettivo da cui può emergere la felicità. Non va dimenticato che le immagini
identificatorie sono anche disciplinari. Nel nome della felicità diamo forma a
una società fortemente disciplinata [...] L’attuale ricerca della felicità è
liberticida e distruttrice, perché vissuta a livello individuale, come se
intorno non esistesse più nulla.2
«Una rockstar è solo una persona», ripeteva Lester. Serbava rancore nei
confronti del punk perché non aveva mantenuto la promessa, non aveva rimosso le
barriere. In seguito l’hardcore ebbe una forte spinta egualitaria, ma Lester
morì agli albori di quel movimento. In ogni caso, anche l’hardcore perse la sua
spinta propulsiva, diventando settario e nichilista o degenerando in musica
frivola e insincera.
Chissà poi che direbbe Lester della figura del dj, divenuta oggetto di
un’insensata reverenza, altrettanto e più divo di molte
rockstar. Un tale che mette dischi! Non vi è dubbio che questo rappresenti un
tradimento degli assunti egualitari, orizzontali e do-it-yourself alla
base dell’esplosione house e techno tra anni Ottanta e Novanta.
E la critica rock? Il culto della celebrità l’ha seriamente compromessa,
oggi è principalmente un accessorio del consumo, con poche eccezioni.
Per fortuna il consumo stesso sta cambiando, le vecchie modalità vengono
spazzate via, l’industria del disco ha da cambiare o tirare le cuoia. L’artista
viziato non può più vivere di rendita, deve sbattersi, carburare a olio di
gomito, riscoprire l’umiltà. In pratica, scarpinare e suonare, tornare a essere
trovatore itinerante, cantastorie... latore di una testimonianza. Questo può
abbattere le barriere, o renderle aggirabili, morte vestigia di un’epoca
trascorsa.
Forse il peer to peer sta finendo il lavoro cominciato dal
punk.
Mentre un potenziale di liberazione scalpita per esprimersi, la vecchia
cultura indugia nella decadenza, la liturgia del rock è sempre meno credibile e
più raffazzonata. Gli Oasis erano già una caricatura, che dire oggi dei
Libertines? Siamo ancora alle pose da ribelli e bei tenebrosi mezzo secolo dopo
il morso del primo verme al cadavere di James Dean? Jon Spencer sarà anche
bravo, ma si crede Elvis, ed Elvis era già un cazzone, figurarsi i tardivi
epigoni. Insomma, le rockstar sono ridicole come mai prima, a vent’anni sono
già dinosauri, a trenta son già pronti per il paleontologo.
In un simile contesto, messaggio e attitudine di Lester Bangs tornano
attuali, finalmente liberi dalla camicia di forza degli stereotipi
«maledettisti».
Non c’è migliore occasione per conoscere Lester. Chi s’avvicina a lui per
la prima volta ne tragga l’energia per le battaglie quotidiane e la forza per
dire quei «No!» che, oggi più di ieri, sono imprescindibili. Settembre 2004