Bo Botto
Falò di classe
Rachel Kushner: FATTI PER BRUCIARE. Saggi
2000-2020. Einaudi, 2023 | Cynthia Cruz: MELANCONIA DI CLASSE.
Atlantide, 2023
Veramente fuori misura i saggi di Rachel Kushner ma non per chissà quali eccessi, che pure non mancano,
tutto sembra invece dilatato nel biografismo, nell’ampiezza degli interessi,
nell’accostarsi a latitudini rivoluzionarie come a voler dire che, “brutti scemi datevi da fare, rivoluzione
e controcultura sono anche oggi possibili”. Il biografismo, ancorché si tratti di una Frisco woman ma nata in Oregon, non tralascia le esperienze italiane quali misure del dissenso alimentato da Nanni Balestrini
non meno che da Rocco e i suoi fratelli, da Alberto Grifi o
da Mara Cagol. Un’Italia che a dispetto di una solida tradizione marinara
diffonde però nel mondo non
i capitani coraggiosi ma quelli codardi alla
Schettino senza alcuna possibilità di un riscatto come l’ebbe Lord Jim. Rachel Kushner coraggio ne ha viceversa da vendere, basta leggere il
primo saggio, un memoir motociclistico dove la tensione sale fino a diventare
alta.
Questo saggio messo in apertura rischia di fuorviare chi si
aspetta arte, letteratura, società, filosofia tutti argomenti che scartabellando
saltano agli occhi. Dennis
Johnson che “al momento dellsa morte tragicamente prematura aveva superato di anni luce
la sua feputazione di autore di culto degli anni novanta”. Jeff Koons che, dopotutto, “è
un uomo del popolo” oltre a essere “un uomo di spettacolo e un venditore”.
Clarice Lispector che possedeva “un senso dell’umorismo capace di sterzare
da un ingenuo stupore alla commedia acida”. Marguerite Duras le cui “affermazioni hanno la consistenza fattuale della terra e dele pietre” (chissà cosa ha voluto dire, visto che terra e
pietre non hanno la medesima coinsistenza). Joan Didion sostenitrice del “vinile nero” per i pantaloni di Jim Morrison e non di cuoio, “lo scrive almeno tre volte”. E Poi ritroviamo
Lacan, Blanchot, Barbara Loden, Debord.
Rachel Kushner ci racconta che ha lavorato per Bill Graham, il mitico
impresario del Fillmore theater,”il suo nome accompagnava ogni cosa aavesse a che fare con il rock and roll” e via a parlare dei Clash, di Santana, di Iggy Pop, di Debbie Harry, dei Black Sabbat, di Jerry Garcia… Ma ancora
minorenne, falsificando i documenti, era entrata a lavorare al Til Two Lounge “dove si esibivano le leggende del soul e del blues”.
Con tutto questo a Rachel Kushner non piacevano gli hippy “e non volevo vedere neanche
quelli finti”, quelli cioè che giravano per Frisco quando Oliver Stone stava
preparando il film sui Doors. “ora capisco che questa animosità era dovuta in parte
all’ingombrante influenza della cultura beatnik dei
miei genitori e al loro coinvolgimento nel jazz, nella cultura nera, nell’arte
vernacolare americana intesa come l’unica arte degna di questo nome”.
Si tratta in fin dei conti di un
filone intellettuale aperto
su uno spaccato di proletariato (il papà della scrittrice sosteneva che andare
al pub è una chiara manifestazione di classe) come da noi più che altro per
mancanza di ricerche e testimonianze appropriate non è facile conoscere (benché si vada al bar di quartiere e
all’osteria, ma cosa sono oggi?). Altrettanto si può dire del “Manifesto per la
working class” che è il sototitolo di Melanconia di classe di
Cyntthia Cruz, “un’analisi senza precedenti sul concetto di classe
e sulla povertà in relazione alla vita creativa dell’era moderna” come ha scritto Ocean Vuong, poeta e saggista vietnamita-americano che insegna alla N.Y.Un. La traduttrice ha preferito lasciare l’originale working class invece di classe lavoratrice
poiché, a quanto dice, possiede
un’accezione più ampia. La
melanconia sopraggiungerebbe
ad ogni modo quando si abbandonano le proprie origini
proletarie. L’autrice ci spiega come la sua intonazione di voce, l’impostazione
dei discorsi, i temi affrontati la pongano a una certa distanza dallo stereotipo della classe lavoratrice. Allo
stesso tempo cerca di spiegare ciò che abbiamo sotto gli occhi, la nemmeno
troppo lenta erosione di questo stereotipo che è andata di pari passo coi
mutamenti delle componenti urbane. Anche nel caso della
Cruz ci ritroviamo in un assembramento postmoderno di nomi più o meno celebri. Rispetto alla Kushner ha toni più discreti in
equilibrio col titolo. Cruz è nata a Berlino. Suo
papà, di origine contadina, veniva da Chihuahua in Messico. Lei si considera
tedesco-americana, ancorché sia creciuta in California e lì abbia studiato
filosofia politica. L’Europa, in specie la Gran Bretagna, è comunque un parametro che tiene continuamente presente, sia sul piano sociale sia in quelli
artistico-letterari. Nelle conclusioni rende omaggio a Laura Grace Ford,
curatrice della rivista “Savage Messiah” che dal 2005 al 2009 ha certificato - con foto, disegni e
appunti di diario - “l’epurazione” di classe a
Londra, mostrando cioè come i vecchi quartieri proletari abbiano fatto posto a
ben altro (nuovi condomini, centri commerciali) documentando allo stesso tempo
il destino della gente che faceva parte della vecchia comunità. Un fenomeno di cui si
conoscono bene i sintomi anche dalle nostre parti. Si assiste così alla
trasformazione in spettro del soggetto working class, intrappolato fra due morti, quella del quartiere e quella
della comunità, un fantasma all’interno di un altro
fantasma, morto eppure ancora in vita, uno zombie infestante.