Giuseppe Zuccarino

Klossowski e lestasi del disegno

Il crescente interesse per l’opera artistica di Pierre Klossowski, a pochi anni dalla sua morte, trova testimonianza nel recente catalogo di una mostra. Il volume (Pierre Klossowski. Tableux vivants, a cura di Agnès de la Beaumelle, Paris, Gallimard - Centre Pompidou, 2007) è stato edito in occasione di un’esposizione di disegni presso il più prestigioso museo d’arte moderna parigino. Anche se da Gallimard erano già apparse alcune delle principali opere narrative e saggistiche di Klossowski, e il Centre Pompidou aveva mostrato in precedenti occasioni i suoi lavori grafici, tuttavia questo riconoscimento congiunto da parte di due autorevoli istituzioni culturali francesi giunge un po’ come una riparazione postuma, in rapporto all’incomprensione dimostrata nel secolo scorso, da un settore almeno della critica e del pubblico, di fronte a quel particolare aspetto dell’opera di Klossowski che è costituito dai disegni.

Eppure egli proveniva da un ambiente artistico: alla pittura, infatti, si dedicavano entrambi i genitori ed ancor più il fratello minore, divenuto in seguito celebre con lo pseudonimo di Balthus. Già i primi lavori klossoskiani a grafite avevano ricevuto l’apprezzamento di Masson e Giacometti, ma egli, per alcuni decenni, aveva preferito dedicarsi ad altre attività: quelle di narratore, critico, filosofo e traduttore. Solo a partire dal 1972, ormai anziano (era nato infatti nel 1905), aveva cominciato a sperimentare con passione una nuova tecnica, quella dei disegni a matite colorate, decidendo di dedicarsi quasi esclusivamente ad essa e ponendo dunque in secondo piano l’espressione scritta. Una scelta apparsa a molti sorprendente, mantenuta però con coerenza fino agli ultimi anni di vita.

Ma che cos’hanno di particolare i disegni di Klossowski? Si tratta di opere su carta di notevoli dimensioni, tanto che i personaggi in esse raffigurati appaiono talvolta a grandezza naturale, quasi fossero sul punto di uscire dal quadro per insinuarsi nello spazio dello spettatore. Essendo le scene disegnate di natura erotica, il coinvolgimento che esse producono in chi guarda risulta ancor più efficace, o imbarazzante. Ma occorre tener presenti pure gli aspetti tecnici: composizioni così grandi, realizzate usando le matite colorate, implicano tempi assai lunghi di esecuzione, e producono un effetto visivo insolito, dovuto alle tinte, mai squillanti ma sempre pallide, sfumate. L’arte di Klossowski appare curiosamente antimoderna, in quanto si ispira per un verso alla pittura da museo e per l’altro alle cromolitografie e alle illustrazioni popolari, senza grandi timori di cadere nel kitsch. Se l’intento dell’artista parrebbe tradizionalmente figurativo, le opere presentano nondimeno parecchie deviazioni rispetto all’ortodossia mimetica, subito bollate dai detrattori di Klossowski come segni di imperizia (a ciò egli allude quando, con ironia, firma alcuni dei suoi lavori con la dicitura «Pierre il maldestro»). D’altra parte occorre aggiungere che il carattere a prima vista rétro di queste opere non ha mai impedito ad esse di trovare accoglienza in rassegne o gallerie specializzate in arte contemporanea.

C’è poi un altro problema, ancor più spinoso: quello del rapporto con i testi letterari. Infatti gran parte delle scene che compaiono nei disegni possono sembrare illustrazioni di brani dei romanzi klossowskiani, sia quelli della trilogia Les lois de l’hospitalité, ambientati in epoca contemporanea e incentrati sulla figura femminile di Roberte, sia il successivo Le Baphomet, con scenari in parte medievali e con protagonista il giovane paggio Ogier. Eppure l’autore ha sempre sostenuto che i quadri andrebbero contemplati autonomamente, pretesa apparsa a molti eccessiva, e contraddetta già dai titoli delle opere, che indicano in dettaglio nomi e comportamenti dei personaggi rappresentati, favorendo così il riscontro con le pagine dei libri. Anzi, va detto che persino certi saggi dell’autore, come Le bain de Diane o gli studi su Sade e Nietzsche, hanno fornito lo spunto per dei disegni. Ma a tutto ciò Klossowski avrebbe potuto ribattere dicendo che molte opere visive non trovano corrispondenza nei testi, oppure sono ispirate a personaggi ideati da altri scrittori (Gulliver, d’Artagnan), o addirittura rinviano alla cultura antica (Ganimede e l’aquila, Giuditta e Oloferne, Socrate e Carmide, Tarquinio e Lucrezia). Del resto la sua disinvoltura nell’ambientare le scene rappresentate era tale da consentirgli di inserire nei suoi quadri persino le effigi di scrittori contemporanei (quelli che aveva frequentato e a cui si sentiva vicino, come Gide, Bataille e Foucault), collocati anch’essi in situazioni immaginarie.

Ma come si spiega questa strana mescolanza di antico e recente, di raffinatezza e naïveté, di serietà e ironia, e che cosa si propone l’artista realizzando col più infantile dei mezzi grafici, le matite colorate, opere che aspirano alle dimensioni e alla solennità dell’affresco? Se si leggono i suoi testi sulla pittura o le interviste da lui rilasciate in proposito, ci si imbatte in argomentazioni singolari, ad esempio l’idea che l’opera è un simulacro, volto a rappresentare ed evocare delle presenze demoniche che, dopo aver preso forma nell’immagine, esercitano a loro volta un’azione sulla psiche dello spettatore. Gli scritti teorici di Klossowski evidenziano poi un altro aspetto interessante, vale a dire la sostanziale indistinzione, ai suoi occhi, fra i dati reali e quelli fantastici. Non appena una determinata scena si è delineata con precisione nella sua mente, essa esiste una volta per sempre, e dunque si tratta solo di renderla visibile, ricorrendo alle parole o (in modo a suo giudizio più diretto ed efficace) alle immagini. Queste ultime possono anche essere fotografiche, teatrali, filmiche e persino scultorie: da qui la sua costante ricerca di collaboratori che, in questi diversi ambiti, accettassero di farsi suoi complici aiutandolo a dare concretezza alle proprie visioni.

Ad uno di questi complici, il regista cinematografico Alain Fleischer, si deve il testo forse più illuminante tra quelli (peraltro tutti di buon livello) presenti nel catalogo. In esso egli chiarisce perfettamente, sulla base della sua frequentazione di Klossowski, come questi avesse la tendenza a non distinguere i personaggi da lui ideati dalle persone del proprio ambiente, anzi a cercare di convincere queste ultime ad identificarsi con i primi, assumendone i ruoli (l’esempio più noto è quello della consorte, Denise, da lui indotta a prestare i propri tratti somatici a quelli di Roberte). Ma tutto ciò non fa altro che riportarci alla tecnica prediletta dall’artista, ossia alle opere grafiche. Osserva infatti Fleischer: «Rappresentando mediante il disegno i personaggi nelle dimensioni reali, Klossowski li tocca, li accarezza in ogni parte della loro anatomia, e questo formato delle opere, rarissimo per un disegnatore, è sufficiente a dimostrare che le immagini in questione non sono riducibili né allo statuto né al luogo tradizionale dell’illustrazione». Ancor più rilevante è un altro passo dello stesso testo, nel quale si designa il fine ultimo della pratica artistica klossowskiana: «La sua percezione, la sua convinzione, era senza dubbio quella […] che una spirale lo avvicinasse costantemente ad un centro che sarebbe stato la verità del godimento, la fusione estatica infine raggiunta tra il corpo che vede e la visione».

Se il lento, paziente e faticoso (specie per una persona anziana com’era il Klossowski interamente dedito al disegno) lavoro di ricoprire con segni colorati la superficie di enormi fogli era per lui così gratificante da non fargli mai rimpiangere i tempi in cui la sua forma espressiva consueta era la scrittura, ciò si spiega appunto col fatto che quest’abitudine quotidiana si configurava come un esercizio di meditazione, e al tempo stesso come un mezzo per sottrarsi alla realtà comune, sostituendo ad essa un’immagine mentale completamente diversa, da assaporare in ogni dettaglio, cercando poi di farla condividere ad altri. Del resto tutto ciò era già stato preannunciato dal protagonista (non privo di tratti autobiografici) di uno dei suoi romanzi, Le Souffleur: «Lo sforzo che da anni ho tentato di compiere, era quello di passare dietro la nostra vita, per osservarla. Ho dunque voluto coglierla tenendomi fuori di essa, vedendola da dove assume un tutt’altro aspetto. Se la si contempla da lì, si accede a una felicità insostenibile…».