Omar Wisyam

Una generazione di identificazioni pronto-moda: Kafka

 “Il nostro popolo non è solo puerile ma è anche in un certo senso vecchio”. Kafka

Per un certo periodo sono stato Kafka. “Tramutato” da un ultracorpo kafkoide come molti figli adolescenti dell’Occidente libero. Non so molto dei coetanei di allora nel mondo oscuro aldilà della Cortina di ferro, ma probabilmente vi si aggiravano o più probabilmente vi si nascondevano dei piccoli Kafka. Un destino non si sceglie. Non fui Lovecraft, per esempio, o qualunque altro tizio famoso in cui avessi riconosciuto qualche affinità con me.

Diligentemente lessi tutto ciò che era stato tradotto in italiano. Ed era veramente notevole. Max Brod aveva salvato tutto quello che aveva trovato, e gli editori stampavano ogni frammento di racconto, qualsiasi appunto, tutte le cartoline e le lettere del praghese. Per espressa richiesta di Kafka, l’amico devoto di una vita avrebbe dovuto bruciare gran parte delle carte. Kundera ritiene che sarebbe stato giusto rispettare la sua manifesta volontà. Avremmo perduto i romanzi e con essi, ragionevolmente, anche la metafora kafkiana, quella per cui si definiva una situazione “kafkiana”, cioè, in genere, la situazione che si era avverata nel sistema burocratico e oppressivo dell’Est. Metafora sorella e complementare era quella “orwelliana”, ancora più marcatamente rivolta verso quella parte del mondo. Ma all’epoca credevo che Kafka parlasse di me. Mi pare che accadde tra il 1970 e il 1973.

In un momento cruciale del “Processo” il protagonista K. attende, inutilmente, davanti al duomo, l’arrivo di un cliente “italiano”, anzi dell’Italia meridionale, uno che iniziava parlando in italiano e regolarmente finiva in dialetto (“sarebbero arrivati presto a intendersi e anche se non avesse capito molto, non sarebbe stato un gran male poiché, per l’italiano, farsi capire non era la cosa più importante”). Uno con i baffi.

L’avevo completamente dimenticato. Eppure questo personaggio assente suggerisce una vistosa alternativa. È altrettanto lampante che in quel momento non dovessi sentirmi “italiano”.

Poiché stava piovendo e l’ospite non sarebbe più arrivato K. entra nel duomo e parla con il prete, che già lo aveva riconosciuto, dato che gli chiede: - Tu sei Josef K.? - e poi aggiunge: - Tu sei accusato - ed infine: - La tua colpevolezza si dà per dimostrata -.

Quello che segue è senza dubbio uno dei dialoghi più significativi del romanzo, dato che comprende l’apologo “Davanti alla Legge” e il successivo commento.

Massimo Cacciari nella prima metà del volume “Icone della legge” (1985) persegue (“con un’analisi serratissima” riferisce la nota editoriale) le prove e gli indizi sparsi di questo conciso racconto (un’esecuzione sommaria direi invece, trovandosi nelle corde più intime dell’ebreo boemo). Ma il filosofo veneziano è solo uno dei numerosi interpreti che vi si sono dedicati, e neppure tra gli ultimi di una consolidata e sempre più ingombrante letteratura cresciuta a dismisura nei decenni, che non intendo prendere in considerazione, anche se mi aveva appassionato a suo tempo, quando ero Kafka (nel 1985 non lo ero più da così lungo tempo che la prima lettura del saggio fu distratta e annoiata - infatti già nel 1973 mi rivolgevo verso Roussel, Breton, Jarry e Lautreamont.

Ad esporre e a chiosare l’apologo è lo pseudo sacerdote del duomo: in effetti mi sembra più un rabbino, ma forse tutti i preti si somigliano un po’. E la Legge di Kafka è perfino troppo semplice confonderla con quella biblica. Ma potrebbe essere la Legge della giustizia umana. E molte altre cose, come la medesima assenza della Legge. E a proposito delle “straordinarie decisioni” citate dalla nota editoriale, perché mai l’uomo di campagna dovrebbe “decidere” di allontanarsi nella prospettiva intravista delle sale e dei corridoi forse infiniti della Legge? Perché non potrebbe sedere accanto al primo guardiano, alla luce del sole, e passare il tempo così, contando e supplicando (addirittura!) le pulci sul bavero della pelliccia di costui? Perché non potrebbe oziare a oltranza accanto a quella barba nera da tartaro, “lunga e sottile”?

Ad ingannare è, prima di tutti gli altri, il narratore kafkiano. Un narratore che deliberatamente vuole sviare. Infido e manipolatore nella sua debolezza, indubbiamente vera e diabolicamente artefatta.

Uno che l’aveva capito (presto) era Bohumil Hrabal. In un suo racconto, “Kafkeria” (1965), si legge: - Signora, ha conosciuto Franz Kafka? - Gesù, - disse, - sono io Kafkova Frantiska. E mio padre era macellaio equino e si chiamava Frantisek Kafka. Poi conoscevo un cameriere nel ristorante della stazione di Bydzov, disse chinandosi e l’unico dente le luccicò in bocca come a una strega, - ma signore, se desidera qualcosa di extra, tanto lei non finirà di morte normale, si faccia cremare e mi lasci le sue ceneri e con esse pulirò le forchette e i coltelli, perché qualcosa di pomposo le accada, come un regalo, come una disgrazia, come l’amore… eh, eh, eh. -

Tuttavia se nel mondo circolavano tanti piccoli Kafka, ciò avveniva soprattutto a causa di due letture fondamentali: la “Lettera al padre” del 1919 e la “Metamorfosi” (alle quali aggiungerei il racconto coevo “La condanna” o “Il verdetto” - i due titoli, con cui è stato tradotto in italiano, non sono sinonimi -) del 1912.

Se ora (nel 2023) penso che Kafka aveva 36 anni quando componeva la “Lettera”, non riesco a evitare un senso di disagio. Le pagine in cui parla del matrimonio (un obiettivo impossibile) sono le ultime e le più dense. Nella “Condanna” il figlio protagonista, Georg Bendemann, rivela al padre l’intenzione di sposare una ragazza, le cui iniziali - F. B. - sono le stesse di Felice Bauer. Con una volontà inflessibile e inaggirabile il padre maledice il figlio, ordinandogli di buttarsi nel fiume. Cosa che fa. Nella “Metamorfosi” il figlio scarafaggio si lascia morire, interpretando correttamente il desiderio dei familiari.

Il fidanzamento con Felice Bauer del 1914 si scioglie definitivamente nel 1917 (c’era già stata una prima rottura tra il 1914 e il 1915). La diagnosi di tubercolosi (contratta, pare, per aver bevuto del latte non pastorizzato e non causata dalla povertà o dalle ristrettezze economiche della guerra come invece avveniva per la stragrande maggioranza dei malati) ne è il motivo. Franz Kafka la accoglie come una liberazione.

Gli sembra di essere graziato da un destino inaccettabile. Che la Grazia fosse una malattia mortale: ecco la firma dell’autore! Almeno così credevo, quando ero Kafka.

Stranamente (lo dico oggi) allora prestavo meno attenzione del dovuto ai suoi rapporti con le donne (“allontanarsi da ciò che esige passione”: una specie comandamento di K.). Avrei dovuto accorgermi di qualcosa. Ma poiché mi ritrovavo nel vittimismo della “Lettera al padre”, non vedevo il resto.

“Quali aberrazioni con ragazze, nonostante il male di capo, l’insonnia, i capelli grigi, la disperazione.” Così scriveva in una nota di diario sull‘ammirazione, dove conclude sentendosi colpevole “quasi solo intimamente”. Su analoghi equilibrismi poggia, si fa per dire, l’arte aerea di Kafka.

Costui ebbe (tralasciando i frequenti incontri nelle case di piacere: i bordelli) cinque donne: Felice Bauer, Grete Bloch, Julie Wohryzek, Milena Jesenska e Dora Diamant.

Non è il caso, qui, di esaminare precisamente il rapporto con le cinque donne. (Più una, quella immortalata in una celebre foto accanto allo scrittore con la bombetta sulle ventitré. Hansi Szokoll fu una sua amante oltre che una cameriera ceca).

Se di Felice parla la “Condanna” e non c’era alcun dubbio, il “Processo” parla di Felice e di Grete.

Di ciò invece non avevo a suo tempo la minima idea  (anche per questo ero Kafka!).

Ho cominciato a capire qualcosa quando ho letto “Meme Scianca” di Roberto Calasso. Ad un certo punto del libretto compare Frau Bloch. Che sarebbe Grete Bloch.

“Prima di essere arrestata e trasportata ad Auschwitz, dove morì, Grete Bloch aveva consegnato una valigetta al marito della mia madrina, il giurista Ernst Heinitz, che per me era lo zio Ernesto. Dentro quella valigetta c’erano le lettere di Kafka.”

A Ernst, cioè allo zio Ernesto, Grete Bloch confidò di avere avuto un figlio da Kafka, nato nel 1914 e morto nel 1921. In una lettera del 1940 lei scrive, riferendosi allo scrittore: “Era il padre di mio figlio, che morì improvvisamente a Monaco nel 1921, quando aveva quasi sette anni. È morto lontano da me e da lui che era stato separato da me già durante la guerra e non rividi - se non per poche ore - perché soffriva di una malattia mortale di cui poi morì”.

Queste righe sono state una rivelazione tardiva per me. Mi era già chiaro da decenni che ogni identificazione (spettacolare o meno) è falsa, ma mi mancava (dato che non l’avevo cercata), non la coscienza della cosa, ma la cosa in questione stessa.

Finalmente avevo scoperto il figlio per eccellenza essere padre “inconsapevole”, ma padre, e non solo. All’interno di un triangolo amoroso tra lui, Felice e Grete. Felice e Grete istruiranno il vero processo. Il famoso “Processo” in realtà processa il coso di Kafka!

Kafka’s Dick” è propriamente il titolo di una commedia di Alan Bennett.

Excavating Kafka” è un saggio di James Hawes che si riprometteva di ribaltare sistematicamente i luoghi comuni, i miti, che sono cresciuti nel tempo intorno allo scrittore praghese. Secondo Hawes, K. collezionava riviste pornografiche sado-masochiste e di quel medesimo genere era il sesso che praticava nei bordelli. Klaus Wagenbach, noto studioso del praghese, sostiene al contrario che le riviste collezionate - “Der Amethyste “Die Opale” - non pubblicavano immagini pornografiche (erano invece “erotiche”) ed essendo prive di fotografie non giustificano le conclusioni sensazionaliste di Hawes.

“Questo è Kafka?” di Reiner Stach (Adelphi), raccoglie 99 momenti ed episodi che riguardano lo scrittore (tra cui il collezionismo di riviste osé e la frequentazione dei bordelli). Il volume nasce a margine di una colossale biografia di Kafka che, se non sbaglio, non ha una traduzione italiana.

“Un cuore al buio. Kafka” è un romanzo sui suoi amori, scritto da Manuela Cattaneo della Volta e Livio Sposito, pubblicato da Brioschi Editore.

Non c’entra, ma Angelo Mainardi aveva raccolto nel 1993 otto racconti in un volume che portava il titolo di uno di essi: “Le donne di Kafka”. Ristampato da Robin Edizioni.

P.S. In un articolo zeppo di dimenticanze la più grave è quella di cui ci si accorge dopo averlo terminato. Solo ora mi rammento dello scritto di Canetti, “L’altro Processo”. Eppure, a suo tempo, quando lo lessi per la prima volta, mi sembrò abbagliante. Che Kafka amasse Grete e non Felice era stato Canetti a rivelarmelo. E pure di che faccenda era metafora il “Processo”. E perché il tribunale fosse così strano. E quanto si sentisse umiliato dal giudizio femminile lo scrittore (che aveva giocato su due tavoli). E quanto dello stile kafkiano sia figlio di quell’evento.