Carlo Romano
Kafka radicale
“Le catene dell’umanità sono carta da ufficio”. La frase è
riferita da Gustav Janouch nelle controverse Conversazioni con Kafka (del
1952, ma sottoposte a successive revisioni. Guanda per l’ultima edizione
italiana) e possiede indubbiamente una perfetta intonazione “kafkiana”. Il
contesto colloquiale nel quale è inserita suggerisce tuttavia – laddove Kafka,
sempre secondo Janouch, confabula di
rivoluzione evaporata - qualcosa di più
netto rispetto al disagio che si è soliti indicare con l’aggettivo derivato dal
nome dello scrittore. Secondo alcune testimonianze, Kafka ebbe a frequentare,
negli anni giovanili, i circoli anarchici praghesi, senza smettere poi di
guardare con interesse e partecipazione ai gruppi della contestazione
libertaria e agli scrittori che ne incarnavano il bagaglio. Secondo Michal
Mares, anch’egli scrittore, nonché vicino di casa, Kafka accettò, negli anni
antecedenti la prima guerra mondiale, il suo invito a partecipare a diverse conferenze intorno a temi come il
libero amore e la Comune di Parigi. Questa testimonianza fu inserita nel libro
di Klaus Wagenbach pubblicato in Germania nel 1958 (poi tradotto per Einaudi)
dedicato agli anni giovanili dello scrittore. Altri biografi, in specie Hartmut
Binder, sostengono invece che quelle sui legami tra Kafka e gli ambienti
anarchici e socialisti non sarebbero che leggende risalenti a fonti interessate
e perfino “falsificazioni intenzionali”. Lo stesso Max Brod, il grande amico e
ordinatore dell’opera di Kafka, a sua volta biografo, pur non negandoli, ammise
di esserne venuto a conoscenza soltanto molto tardi. Ciò nondimeno, la
rivendicazione di Kafka agli ambienti libertari è stata sostenuta fin dagli
anni Sessanta da Michael Löwy ed è culminata nel libro, pubblicato da Stock nel
2004 e oggi proposto al lettore italiano dalle edizioni Elèuthera, Kafka
sognatore ribelle (€ 13,00).
Di questo autore, nato in Brasile da una famiglia ebrea di
provenienza boema (come Kafka, la cui madre si chiamava per altro Löwy) e da
tempo parigino, sono note in Italia diverse opere indicative del suo forte
interesse per gli intrecci fra letteratura e dissenso radicale, in particolare se attinenti al surrealismo e
ai suoi paraggi. Löwy si butta a
capofitto nell’intrigo delle testimonianze, evoca le letture di Kafka, indaga
la sua biblioteca e mostra ogni traccia possibile di quel che sostiene
ironizzando su chi le vorrebbe negare. Ma fa anche molto di più. Nemmeno
l’ebraismo di Kafka, invariabilmente evocato dagli studiosi, esce con le ossa
intatte e, polemizzando innanzitutto con l’impostazione di Hannah Arendt, Löwy
spiega quanto lo stesso interesse che lo scrittore praghese ebbe per la
Palestina fosse lontano da ogni
aspettativa religiosa e si fissasse piuttosto sugli esperimenti comunitari che
vi si realizzavano, ove rinveniva l’eco di quanto aveva letto in Kropotkin,
Bakunin, Tucker e altri.
Profondamente segnato da Walter Benjamin – e più dalle tesi
sul concetto di storia che dal saggio che questo dedicò proprio a Kafka – Löwy
si immerge nell’opera dello scrittore per evidenziarne il carattere sovversivo,
non già, come vorrebbe lo stereotipo, quello fatalista e passivo nei confronti
del potere (del quale, per inciso, secondo Elias Canetti, Kafka sarebbe “il
maggior esperto”). La scrittura tutt’affatto realistica di Kafka riesce
superbamente a delineare, insieme alla realtà sensibile, l’esperienza
soggettiva degli uomini davanti agli apparati del dominio. Più, e in un certo
senso meglio, che nei vari “francofortesi” –Adorno, Marcuse ecc. – si ritrova
in Kafka una “teoria” della ragione come elemento che affermandosi annienta
tutti i suoi stessi propositi e con essi il mondo che vorrebbe giudiziosamente
ordinare. D’altra parte, quando Max Weber definiva la burocrazia come il
sistema di gestione più razionale, Kafka mostrava come essa fosse l’esercizio
supremo dell’irrazionalità.
Inoltre, riguardo allo scrittore risulta tuttavia
inappropriato, suggerisce Löwy, parlare strettamente di politica. “L’interesse
di Kafka”, continua lo studioso, è mille miglia lontano da ciò che normalmente
si designa con quella parola, i partiti, le elezioni, le istituzioni, i regimi
costituzionali e così via. Forse sarebbe più adatto un termine come critica.
La dimensione critica è spesso messa in ombra da un certo tipo d’interpretazione
accademica. È tuttavia probabile che sia quello più avvertito dai milioni di
lettori moderni, per i quali il nome di kafka è diventato sinonimo
d’inquietudine davanti al sistema burocratico. Per definire la potenza
espressiva di questo sistema, Kafka ha inventato un’immagine stupefacente: le
catene dell’umanità sono di carta protocollo”. Gli stessi libri non presentano
alcun interesse, affermava lo scrittore praghese, se non sono “un pugno in
faccia che ci risveglia…una scure che spezza il mare di ghiaccio che è dentro
di noi”. Una bella risposta, non c’è che dire, a quanti, critici influenti o
meno che siano, accusano Kafka di predicare un pessimismo radicale che
sfocerebbe nella rassegnazione.
“Il secolo XIX”, 16 luglio 2007