Carlo
Romano
Trasgressioni?
Nel 1997 il “New Statesman”
commissionò ad Anthony Julius
un articolo sulla censura che quell’anno si era abbattuta su alcune opere d’arte (si
ricorderanno le polemiche suscitate dall’intervento censorio del sindaco di New
York, Giuliani, nei confronti di una mostra). L’articolo finì in un primo libro
(Law and letterature) per
fornire poi la base di partenza a un altro volume dedicato alla componente
trasgressiva nell’arte contemporanea, per l’appunto questo Trasgressioni
proposto oggi in edizione italiana da Bruno Mondadori
(l’edizione originale inglese è del 2002). La competenza giuridica dell’autore
è una garanzia di attenzione al riguardo della pretesa dell’arte di costituire
sempre un buon mezzo per farla franca. Il primo capitolo del libro si attiene
infatti con analitica meticolosità a questo
tipo di impegno valutando i diversi metodi difensivi che l’arte ha escogitato
affinché potesse essere assorbita senza danni apprezzabili per gli artisti e le
loro opere nel sistema giuridico contemporaneo. Dopo di che, il testo si
dispiega in una sorta di storia tangenziale dell’arte e del concetto di
trasgressione che, per quanto si legga con autentico piacere ed interesse,
scade un po’ rispetto alle premesse, avvicinandosi piuttosto all’indirizzo
tematico di certa storiografia così da far venire in mente Lo shock
dell’arte moderna di Robert Hugues come un suo naturale antefatto.
Julius
parte da una fotografia di Andrés Serrano del 1987,
esposta in grande formato (1 m. x 1,5) e intitolata Piss
Christ. L’opera rappresenta un crocifisso
immerso in un liquido che sappiamo essere orina. Insieme ad altri successivi
lavori di vari artisti (Chapman, Koons,
Hirst, McCarty ecc.)
l’opera prende a designare alla fine, dopo aver attraversato molteplici episodi
del XIX e del XX secolo, lo “svuotamento” delle idee di trasgressività e la
difficoltà ad esprimerne di nuove.
Niente da dire finché si resta sulle generali, ma a
mio parere avrebbe giovato all’indagine il legarla a qualche osservazione sul
carattere fortemente protetto e artificiale del mercato artistico, il quale
premia - innalzandole al rango di epifania dell’essenziale - soltanto alcune opere scelte
arbitrariamente da un sistema omertoso di giudizi, fuori da ogni criterio reale
di mercato, per non dire di statistica. Non viene colto così un nesso, che mi pare
evidente, fra il deperimento di quel tono di mondanità a lungo garantito
all’arte da un personaggio come Andy Warhol, e le fortune accademico-museali
(si tratta proprio e soltanto di questo) delle esauste “trasgressioni” (non
meno patetiche e marziane dei loro censori) dell’arte degli ultimi quindici
anni.
“Menabò
magazine”, n. 5, 2003