Un seminario sulle traduzioni dell’Ulisse (Genova, maggio 2013)
Come dovrebbe avvicinarsi il lettore, e ancor più il traduttore, al materiale esplosivo, “da maneggiare con cura”, rappresentato dall’opera di James Joyce? Questo il tema affrontato nella densa giornata di seminario su James Joyce e le traduzioni italiane di Ulisse che si è tenuta presso il Dipartimento di Lingue e Culture Moderne dell’Università di Genova il 27 maggio 2013, e a cui hanno partecipato esperti e studiosi di Genova, Milano, Perugia e Trieste. L’incontro, che è stato organizzato da Massimo Bacigalupo per gli studenti della Scuola di Dottorato in Culture classiche e moderne e dottorandi di Letterature comparate euro-americane, si è svolto nella storica cornice della Sala di Lettura della Biblioteca di Lingue, in Piazza Santa Sabina 2 a Genova.
Bacigalupo ha spiegato che l’occasione per la realizzazione del seminario “Tradurre ULYSSES di James Joyce” è stata la pubblicazione della nuova traduzione dell’Ulisse a firma dello scrittore Gianni Celati nella collana “Letture” per Giulio Einaudi editore, traduzione che va ad aggiungersi a quella storica “autorizzata” di Giulio de Angelis realizzata nel 1960 per Mondadori con la consulenza di Glauco Cambon, Carlo Izzo e Giorgio Melchiori, ed a quella di Enrico Terrinoni con Carlo Bigazzi pubblicata nel 2012 da Newton Compton.
La prima sessione, moderata da Bacigalupo, ha visto il contributo di Antonio Bibbò (Università degli Studi di Genova) e della psicoanalista Costanza Costa che hanno rispettivamente contestualizzato l’opera dello scrittore irlandese nella temperie culturale del tempo e focalizzato l’interesse di Jacques Lacan sulla persona di James Joyce.
Antonio Bibbò nel suo contributo dal titolo “Ulysses e la coralità romanzesca” ha sottolineato come quello di Joyce sia un romanzo che ben si può inserire nella tradizione ottocentesca del “romanzo corale” dove il ruolo del protagonista è diviso tra diversi personaggi, come avviene ad esempio in W.M. Thackeray, George Eliot, Gustave Flaubert ed Émile Zola. E’ il momento della storia della letteratura in cui, per dirla con György Lukács, ci troviamo di fronte ad un’apertura democratica del romanzo, e dove questo diventa “un contenitore della vita”. Joyce è un prodotto dell’epoca vittoriana e ne usa e trasforma gli artifici stilistici, in questo caso la tradizione del romanzo corale gli permette di allargare lo spettro della narrazione trasformando però il coro in una dissonanza di voci, come avviene negli episodi di Ade, Eolo, o Rocce Erranti.
Con una struttura simile all’impaginazione di un quotidiano dove troviamo simultaneamente notizie della natura più diversa, dalla politica allo sport, dall’economia alla cultura, accanto a pezzi di colore locale e a una profusione di annunci pubblicitari, James Joyce ha cercato di riprodure la “simultaneità” (così simile a certe pagine del web, ha suggerito Bibbò) nella struttura corale dell’Ulisse. In questa visione narrativa, ogni storia ha la sua dignità romanzesca, tutti i personaggi, anche i minori, hanno “diritto di romanzo”. Quindi particolare attenzione andrebbe riservata – suggerisce Bibbò – al “sistema dei personaggi” poiché spesso il “Doppelgänger” e i personaggi minori rappresentano aspetti inespressi del protagonista principale. Come sarà possibile vedere qualche anno più tardi nei film di Walther Ruttmann (1927) e di Dziga Vertov (1929), tutti gli abitanti della grande città hanno un loro ruolo nella composizione della sinfonia della metropoli, perché - come in Dubliners e in Ulysses – infine è tutta la città ad essere la vera protagonista della narrazione.
A questa lettura di un Ulisse “corale” è stata contrapposta la visione di una scrittura “polifonica”, suggerita durante il dibattito da Giovanni Cianci (Università degli Studi di Milano), rifacendosi alla “cinematografica” visione simultanea della città propugnata dai Futuristi, il cui linguaggio “rumorista” Joyce ebbe modo di conoscere durante il suo soggiorno triestino, e che risuona forte e chiaro nell’animismo degli episodi di Eolo e di Circe, dove anche gli oggetti “parlano”.
Da una riflessione sul linguaggio glossolalico pre-babelico è partita invece la relazione della dottoressa Costanza Costa. L’intervento della psicoanalista di Genova prendeva spunto dalla recente pubblicazione sulla rivista Lettera degli atti del colloquio franco-italiano“Joyce e l’Arte: supplenza, sublimazione, sinthòmo” organizzato lo scorso anno anno a Trieste dall’Associazione Lacaniana Italiana di psicoanalisi in collaborazione con Espace Analityque e l’Association de psychanalyse Jacques Lacan.
Nel suo intervento intitolato “...non poteva smettere di scrivere: spunti per una lettura psicoanalitica di Joyce”, la dottoressa Costa ha citato in particolare i contributi di Massimo Recalcati, di Gerard Pommier e di F Briolais e M. Mesclier in cui è analizzata l’idea che la scrittura, la creatività artistica, possano avere una funzione di supplenza e rappresentare un processo di sublimazione, ovvero un processo grazie al quale la “soddisfazione pulsionale” si ottiene per altre vie rispetto a quelle sessuali. L’interesse di Lacan per la figura di Joyce coincide con l’ultima fase del suo pensiero e sfocia in una nuova lettura clinica delle psicosi: “L’essere normale è essere fuori discorso: è essere pazzo” dice Lacan nel XXIII seminario Il Sinthomo 1975-1976. Secondo lo psicoanalista francese, Joyce (a differenza della figlia Lucia) ha evitato di diventare folle trasformandosi in un libro, e non un libro qualsiasi, ma in un’opera d’arte.
James Joyce supplisce alla carenza del rapporto col suo fallimentare padre John Stanislaus Joyce attraverso il sintomo della scrittura, sostiene Massimo Racalcati, rendendo quindi possibile “un’eredità senza il Nome del Padre” perché l’opera d’arte fornisce allo psicotico lo “sgabello” dove salire e proclamare la propria dignità d’artista. Ma come “darsi” un nome? Tramite una scrittura glossolalica, suggerisce Gérard Pommier, ovvero la lingua del padre primitivo che gode senza limiti. Il nome proprio che James Joyce si forgia attraverso la sua scrittura creativa è dunque un “grido glossolalico” che trasforma la lingua in nome proprio e supera il nome del grande padre edipico e s’identifica con dio.
Questo concetto carica l’opera di Joyce di “sacralità” alimentata dalla fede dei suoi devoti, ma rischia però d’intimorire “the common reader”. Lettore comune per il quale l’oggetto Ulisse altro non è che una “commodity”.
Alla storia di questo prodotto “libro” ed alle avventure editoriali dei testi joyciani in Italia è stato dedicato l’intervento di Sara Sullam (Università degli Studi di Milano) su “La ricezione di Joyce nell’Italia del secondo dopoguerra”, che ha aperto la seconda sessione del Seminario moderata dal Prof. Giovanni Cianci dell’Università degli Studi di Milano.
Il contributo di Sara Sullam nasce da un’approfondita ricerca di archivio presso i fondi della casa editrice Mondadori, gli archivi dei manoscritti di Pavia e altre istituzioni e getta luce sulle ragioni che portarono all’uscita dell’Ulisse in Italia solo nel 1960, ovvero con 38 anni di ritardo rispetto all’apparizione del libro a Parigi nel 1922, nonostante la mediazione tentata da Carlo Linati quando lo scrittore irlandese era ancora in vita.
Certamente ci furono inizialmente problemi con la censura fascista, ma gli ostacoli maggiori vennero in realtà da Joyce, che voleva vendere i diritti d’autore solo ad una casa editrice italiana di primo piano disposta a pubblicare la sua opera completa e non solo l’Ulisse. Una volta trovato l’accordo con la Mondadori i problemi successivi vennero creati dagli eredi, secondo i quali l’Ulisse doveva essere tradotto solo da un grande poeta, ma i vari Montale, Pavese e Vittorini rifuggirono l’offerta come la peste. Durante tutti gli anni ‘30 James Joyce in Italia fu conosciuto come autore di prose brevi e come tale ebbe un successo di “genere”. Solo negli anni ‘40, quelli delle piccole esperienze editoriali, riconducibili alla cosiddetta “piccola editoria di liberazione” che si diffuse fino al 1955, si ebbe infine la scoperta del modernismo novecentesco da parte di giovanissimi editori e fondatori di riviste. Come nel caso del volume del 1947 edito da Enrico Cederna che raccoglieva le traduzioni di Alberto Rossi di poesie, dell’episodio di Proteo e di un saggio di Joyce.
Mentre la casa editrice Mondadori seguitava a richiedere proroghe agli eredi perché non riusciva a trovare un traduttore per l’Ulisse, James Joyce in Italia si era fatto la fama di “maggior poeta irlandese”, finché non apparve il fiorentino Giulio de Angelis che aveva pronta una sua versione che venne poi rivista e corretta da un gruppo di accademici. La prima tiratura fu di 20.000 copie e l’impatto fu immediato dagli autori del Gruppo ‘63 a Carlo Emilio Gadda fino a Umberto Eco e alla sua Opera aperta.
Tradizione, traduzione, trasferimento, transfert, tradire: ricreare. Questi i temi affrontati da Enrico Terrinoni (Università per Stranieri di Perugia) e autore con Carlo Bigazzi della traduzione dell’Ulisse uscita nel 2012 per i tipi della Newton Compton. Il titolo del suo intervento era: “Tradurre l’Ulisse come ‘ritorno’ alla modernità”. Lo studioso joyciano ha esordito dicendo che il grande libro di Joyce è “una metafora del ritorno” in quanto riporta a luoghi familiari al lettore occidentale, in primis al mito classico, a Omero, ma anche ai miti celtici, nonché alla vita vera e – infine – all’Irlanda.
La traduzione – ha dichiarato – è una resa, nel senso di rendere, ma anche arrendersi. Un’operazione democratica che secondo Giordano Bruno è la fonte di tutte le scienze, ma è più adatta agli umili servitori del testo che non a chi vuole mettere in mostra il proprio narcisismo.
Terrinoni ha ironizzato sul fatto che “la traduzione va considerata alla stregua dell’amante di un testo originale e, per quanto riguarda le amanti, più ve ne sono e meglio è.” Ed ha aggiunto che è forse per questo che i traduttori sono spesso a rischio transfert. In quest’ottica è passato a fare una serie di esempi di passi del testo, spiegando le sue scelte di traduzione.
Nell’incipit del libro: Stately, plump Buck Mulligan, a differenza della versione di de Angelis – «Solenne e paffuto» – e dell’«Imponente e grassoccio» di Celati, Terrinoni individua il parallelo shakespeariano, e quindi traduce: «Statuario, il pingue Buck Mulligan» La spiegazione è da ricercarsi nella prima parte dell’Enrico IV, in cui il grasso cavaliere si rivolge al principe Hal dicendo: banish plump Jack and banish all the world (Shakespeare 1996, 431). Per Terrinoni il plump Buck di Joyce è una versione moderna del plump Jack di Shakespeare, ovvero Falstaff stesso. Buck Mulligan viene infatti presentato a più riprese come un buffone, un clown, un fool, un jester. Inoltre Shakespeare avrebbe scritto la parte di Falstafff per lo stesso attore che interpretò tutti i maggiori fool dei suoi primi play, ovvero il comico Will Kempe. Potrebbe non essere un caso, infatti, che nel nono episodio di Ulysses, in cui Falstaff viene citato esplicitamente, di Mulligan si dirà che è «un buffone d’un giullare» dal cranio «ben pettinato» (Terrinoni 2012, 227) – in inglese wellkempt (Will Kempe?).
Un altro esempio proposto dal traduttore prospettava difficoltà per via delle sue molteplici allusioni e si trova nell’episodio del Lestrigoni: Sardines on the shelves. Almost taste them by looking. Sandwich? Ham and his descendants mustered and bred there. Il tutto gravita intorno alla confusione ingenerata dal termine Ham, che in inglese indica sia il prosciutto cotto sia Cam, il figlio di Noè. La soluzione generale del dilemma – ha spiegato Terrinoni - va ricercata in una filastrocca americana che recita: Why should no man starve on the desert of Arabia? Because of the sand which is there. How came the sandwiches there? The tribe of Ham was bred there and mustered. (Gifford 1988, 179). I pun riguardano, quindi, la tribù di Cam, il prosciutto cotto, il sandwich, la sabbia, il pane, la mostarda, i verbi allevare e radunare. Questa dunque la sua traduzione: «Sardine in mostra. A guardarle si sente quasi il sapore. Sandwich? Insacco e i suoi discendenti ammastardati e allievitati lì» (Terrinoni 2012, 187) -- in cui egli ha “tentato di riprodurre al meglio il subdolo termine Ham con una invenzione che si discosta dal testo ma ne mantiene la polisemia e anche i campi semantici, seppure con qualche lieve traslazione. ‘Insacco’, rimanda infatti, anziché al figlio di Noè e al prosciutto, al figlio di Abramo, appunto Isacco, e al mondo degli insaccati. Il resto del passo è un gioco sui termini “ammassare” e “mostarda”, e “allevare” e “lievitare”, che rimandano sì ai campi semantici di partenza (mustered: mustard, passato di to muster; bred: bread, passato di to breed) ma creano degli ibridi in italiano.
Un altro tra gli esempi forniti è il noto dilemma attorno a U.P.: up. Si tratta – spiega Terrinoni - “di un biglietto recapitato a Denis Breen da non si sa chi e per il quale il destinatario si adira talmente da voler sporgere denuncia contro anonimi. È quindi certamente un insulto, e anche grave. De Angelis traduce letteralmente «S.U.: su», Celati: «U.P.: Un pazzo». Partendo da un ragionamento storico-politico-culturale Terrinoni ha tradotto: «P.U.: pu» (Terrinoni 2012, 175), riservandosi di fornire una spiegazione completa dell’enigma in nota.
“La mia versione – ha dichiarato - segue l’interpretazione che vuole l’originale UP essere la sigla del movimento religioso dei Presbiteriani Uniti (UP: United Presbyterian), uso registrato nell’Oxford Dictionary of English. La spiegazione del perché questa etichetta risulti offensiva per un cattolico risiede in un uso del tutto particolare e tipico di Dublino, secondo cui persino la parola protestant può essere assumere un senso spregiativo. Questa soluzione consente, inoltre, di far slittare l’insulto anche sul piano scatologico (“pupù”), oltre a indicare, tramite percorsi onomatopeici, l’atto stesso di insultare una persona non a parole, ma a gesti, simulando l’atto dello sputo «pu!».” Anche in questo caso la traduzione da un lato si discosta molto dall’originale, mentre dall’altro, si avvicina a uno dei possibili significati del testo.
Il lavoro del traduttore sembra dunque quello di recapitare le cosiddette “dead letters”, ovvero quei messaggi di senso smarriti o che rischiano di non arrivare mai al lettore.
Uno strumento per orientarsi in un testo così complesso come l’Ulisse è anche l’individuazione dei cosiddetti “cluster semantici” che sono stati l’oggetto dell’intervento di Elisabetta d’Erme, giornalista culturale e saggista. Nel corso del suo contributo dal titolo “Cos’è una casa senza la pasta di carne Plumtree? I ‘cluster semantici’ nelle traduzioni italiane dell’Ulisse. Note di lettura” ha illustrato come un termine abitualmente usato nella semantica computazionale e nelle neuroscienze sistemiche per indicare una catena di associazioni, possa essere anche applicato nella linguistica per descrivere la struttura ramificata di un’aggregazione di significati. Infatti in un “cluster” (grappolo) l’aggregazione semantica si ha nel momento in cui una serie di termini chiave vengono via via ripetuti e aggregati all’interno di un testo o di un discorso facendosi portatori di una pluralità di significati. “Parole chiave” che possono quindi fungere da ponte, da chiave d’accesso ad altri cluster semantici.
Il grappolo di messaggi di senso legato a un termine, parola, slogan, citazione o a una frase ricorrenti, è uno dei tratti distintivi della scrittura di James Joyce e dell’Ulisse in particolare, dove le cosiddette “parole stampella” accompagnano il lettore lungo tutto il romanzo e concorrono alla costruzione e allo sviluppo del testo, fungendo non solo da guida, ma anche da pilastri portanti della struttura narrativa. E’ il caso – ad esempio - di bowl (ciotola), cod (baccalà), keys (chiavi), throwaway (volantino), brood (meditare),“lovely seaside girls”, Plumtree Potted Meat e tanti altri ancora.
Se per il lettore è importante individuare questi “scrigni di senso” ancor più lo è per il traduttore, perché se non viene chiaramente identificato si rischia di snaturare il “semantic cluster”, traducendolo o interpretandolo in modo diverso ogni qualvolta si ripresenta nel testo, come purtroppo accade nella traduzione dell’Ulisse di Gianni Celati.
Elisabetta d’Erme ha poi analizzato una serie di soluzioni per cluster semantici presenti nell’Ulisse, adottate nelle loro traduzioni da Giulio de Angelis, da Enrico Terrinoni e da Gianni Celati. Nello specifico partendo da “Give up the moody brooding” ha comparato le traduzioni del cluster che cresce attorno al termine “brooding” (to brood), per passare poi allo slogan della Plumtree’s Potted Meat, cluster capace di generare un’articolata ramificazione di significati, ed infine a quello legato al bisticcio tra l’asserzione “throw it away”, il cavallo da corsa Throwaway e il throwaway (volantino) che annuncia l’arrivo del profeta Elia.
Sulla base dei numerosi esempi è risultato evidente il pericolo che, imbattendosi in una serie di ripetizioni, il traduttore possa essere tentato di utilizzare sinonimi per termini che andrebbero invece resi sempre con un’unica soluzione, e che un ampio ricorso alla “sinonimia” possa creare il rischio che “parole chiave” fraintese, o inopinatamente mascherate dai sinonimi, diventino irriconoscibili, lasciando il lettore senza punti di riferimento.
In quest’ottica, assai istruttiva e divertente è apparsa l’analisi dello sviluppo nel testo dello slogan pubblicitario:
What is home without
Plumtree’s Potted Meat?
Incomplete.
With it an abode of bliss
che nell’Ulisse appare per la prima volta nel 5° episodio, i Lotofagi. Un “cluster” di importanza cruciale – ha sottolineato d’Erme - perché in 4 righe riassume praticamente il romanzo: “la storia di un uomo alla ricerca di un po’ di felicità (bliss), ma la cui vita coniugale non funziona, perché in casa sua ‘to pot one’s meat’, ovvero a copulare con sua moglie, ci pensa qualcun altro, col rischio di ritrovarsela anche ‘up a plumtree’, vale a dire ingravidata. Insomma, la vita sessuale di Poldy Bloom è incompleta e lo sarà finché nel suo letto troverà i resti della ‘pasta di carne’ consumata da Blazes Boylan (l’amante della moglie).” Come sono state recepite e tradotte le associazioni di significato suggerite dal cluster?
Una casa cos’è
se la pasta di carne Plumtree non c’è?
Incompleta.
Quando c’è è una casa da re. (de Angelis, p. 104)
Che casa è
senza la pasta di carne Plumtree?
Una noia.
Se c’è, una dimora di gioia.(Terrinoni, p. 99)
Celati ne propone diverse versioni (arbitrarietà che d’Erme ha riscontrato anche in altri cluster, come citazioni, toponomastica, refrain di canzoni). In Lotofagi:
Cos’è una casa senza
la carne in scatola Plumtree?
Ben povera credenza
Anche se fosse quella del re (Celati, pp. 27-30)
In Lestrigoni:
Cos’è una casa senza la carne in scatola Plumtree?
(…) (manca Incomplete) (...)
Se la carne in casa c’è, è una casa da re. (Celati, pp. 235-36)
In Itaca:
Cos’è una casa senza la carne in scatola Plumtree?
Incompleta
Con quella siete in paradiso (Celati, p. 850)
Soluzioni in cui vanno persi alcuni dei significanti chiave del cluster, quali “Potted Meat”, che non va scambiata con “canned meat” (carne in scatola), quali l’aggettivo “Incomplete” così carico di messaggi riferiti non solo a Leopold Bloom, e infine il termine “bliss” con le sue variazioni cannibaliche:
Ham and his descendants mustered and bred there. Potted meats. What is home without Plumtree’s potted meat? Incomplete. What a stupid ad! Under the obituary notices they stuck it. All up a plumtree. Dignam’s potted meat. Cannibals would with lemon and rice. White missionary too salty. Like pickled pork. Expect the chief consumes the parts of honour. Ought to be tough from exercise. His wives in a row to watch the effect. There was a right royal old nigger. Who ate or something the somethings of the reverend Mr MacTrigger. With it an abode of bliss.
Passo tradotto creativamente sia da de Angelis (p. 232) che da Terrinoni (p. 187), mentre presenta problematiche elisioni nella versione di Celati (p. 235-36):
Pro-sciutto: stirpe suina selezionata e allevata pro-panino. Cibo che si conserva. Cos’è una casa senza la carne in scatola Plumtree? (...) Pubblicità cretina. Sono andati a incollarla sotto gli annunci mortuari. (...) Sotto la carne inscatolata di Dignam. I cannibali la mangerebbero con riso e limone. Il missionario bianco troppo salato. Come maiale in salamoia. Suppongo che il capo tribù mangi le parti onorifiche. Forse gommose da masticare per via dell’esercizio. Le mogli in fila per vedere l’effetto che fa. C’era un vecchio monarca nero che mangiò un pezzo della cosa d’un prete austero. Se la carne in casa c’è, è una casa da re.
· dove manca l’aggettivo INCOMPLETE (che può essere riferito alla casa/alla felicità/alla famiglia Dignam che ha perso il padre/al missionario che ha perso i suoi ammennicoli ecc.); ma anche la traduzione di ALL UP A PLUMTREE, che Gifford e Seidman informano essere “Slang for cornered, done for; or trapped in an unwanted pregnancy.” e che d’Erme suggerisce si potrebbe tradurre con “tutti gabbati!”; ma cornered suggerisce anche l’associazione con corned beef (pasticcio di carne lessa). Il “cibo che si conserva” di Celati e altre soluzioni adottate dallo scrittore sembrano dunque portare il lettore molto lontano dall’abode of bliss rappresentato da una casa dove potted meat c’è.
Come dovrebbe dunque districarsi il traduttore di Joyce nel labirinto dei “realia”, dei “cluster”, e delle “dead letters”? Se l’Ulisse è tutto un gioco, chi detta le regole? Ne è seguita un’animata discussione sull’appeal che può avere oggi una versione d’autore rispetto a quella di un artigiano qual è il traduttore professionista, ma anche sulle libertà che ci si può permettere, in particolare di fronte a un testo (quasi) sacro come quello dell’Ulisse di James Joyce. Un ascoltatore ha riferito quanto detto recentemente da un giovane traduttore: tradurre significa convivere a lungo e per forza con un’altra persona o presenza, la quale fra l’altro comanda. I traduttori-autori (celebre il caso di Vittorini) cercano in qualche modo di sfuggire a questa sudditanza.
Riferimenti bibliografici
James Joyce, Ulysses – Annotated Student’s Edition, Penguin, London 1992.
James Joyce, Ulisse, traduzione di Giulio de Angelis, consulenti Glauco Cambon, Carlo Izzo,
Giorgio Melchiori, Mondadori, Milano 1960.
James Joyce, Ulisse, traduzione e cura di Enrico Terrinoni con Carlo Bigazzi, Newton Compton,
Roma 2012.
James Joyce, Ulisse, traduzione e introduzione di Gianni Celati, Einaudi, Torino 2013.
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