Eric Stark
Dedalus nella steppa
José Vergara All future plunges to the past. James Joyce
in Russian literature. Cornell University Press 2021
Letto
come tributo al centenario dell'Ulysses, ma non c'è voluto molto
per ridimensionare le attese: pochi paragrafi e i giochi pirotecnici che il
titolo pareva promettere sono finiti nella polvere bagnata della prevedibile e
poco avventurosa dissertazione dell'accademico da giovane, allevato in batterie
di convegni e seminari. Mentre cadeva il bando decennale decretato negli Stati
Uniti verso il romanzo del 1922, la condanna (dal tono definitivo) di Karl Radek nel 1934 davanti agli Scrittori Sovietici a congresso
(“un mucchio di sterco brulicante di vermi, ripreso cinematograficamente
attraverso un microscopio”) segnalava l'esistenza di un problema per
l'inserimento dell'opera di Joyce nel sistema delle lettere sovietiche (poche
le eccezioni, tra cui Anna Achmatova che tornò ripetutamente sull'Ulysses)
preconizzandone la quasi sparizione dal dibattito pubblico almeno fino alla
dipartita di Stalin: insieme alla frequentazione della “cosa” joyciana il
disgelo ammise la lettura e il recupero di autori, altrove scontati, come Remarque o Hemingway. La storia della recezione nei tre
blocchi della letteratura russa (nelle versioni soviet, emigrazione e
post-soviet) è dettagliata da Vergara tramite lo
scandaglio ravvicinato dei romanzi di cinque scrittori chi più chi meno
impegnatisi nel confronto con l'autore irlandese: Olesha,
Nabokov, Bitov, Sokolov e Shishkin.
Una
volta ricordato che per una traduzione integrale dell'Ulysses si debba
attendere fine anni '80 (per tacere del Finnegan's
Wake) e che la circolazione di Joyce nella cultura russa, fin dagli anni
venti del novecento, con le prime visite al negozio parigino di Sylvia Beach, urti contro la diffidenza che accompagnò gran
parte delle proposte del modernismo occidentale, Vergara
individua nell'esilio, nella paternità, nell'eredità e nella storia i temi che
subito coinvolsero i primi lettori russi dell’irlandese. In questione,
echeggiando Stephen Dedalus, sono l'eredità tout
court, non soltanto letteraria, il conflitto generazionale, la possibilità di
riscrivere il passato, producendo una propria ascendenza, oltre il dato
biologico. La tabula rasa decantata dagli arditi creativi dovette però subito
patteggiare, anche nel nuovo mondo sovietico, con l'ineludibile eredità dei
tanti precursori e profeti dell'uomo nuovo. E già a pochi anni dalla
rivoluzione d'ottobre, l'accusa di joycismo [dzhoisizm] escludeva dai benefici conferiti dall'appartenza alla schiera degli scrittori proletari ponendo
l'accusato nel rango sospetto degli scrittori petit-bourgeois
o, al meglio, compagni di strada. Quindi Joyce andava deprecato, si spingerà a
sostenere il pur volenteroso Olesha, per aver
scritto, da pessimista, che “il formaggio è il cadavere del latte”,
opponendogli la verità dialettica (sottinteso: ottimistica) che il latte
materno, immortale, passa dal petto nella bocca del bambino. A queste altezze,
forse Dos Passos funzionava
meglio come modernista da importare nei soviet, spingendo il pedale, come
temuto da rari joyciani lungimiranti, verso la totale infantilizzazione
e minorità della cultura sovietica. “Svegliarsi dall'incubo della storia”, e
dalla stretta soffocante dei tanti padri, obbiettivo di Stephen Dedalus, rimase un invito cui, comprensibilmente, dato il
contesto e tolte poche eccezioni, come A. Platonov,
l'arte minima del saper vivere consigliava di non corrispondere apertamente,
proprio come si stava opportunamente lontani da eventuali tentazioni chlebnikoviane o da un antimimetismo
alla Charms. Passarono decenni perchè
sull'accostamento per temi, contenutistico, prevalesse il confronto col
nocciolo linguistico più dirompente della prosa joyciana e la rottura dei
legami filiali e del tempo lineare venissero letti insieme agli esiti più
radicali e disperati delle avanguardie russe primo-novecentesche. Si trattò di
un'influenza all'origine di ansietà diversamente fronteggiate: Nabokov, ad
esempio, in alcuni luoghi ne negò l'esistenza ma, oltre alla lettera in cui si
propose come traduttore dell'Ulysses, il Dono risultava una sua
personale traslazione in chiave russa di temi come la liberazione dai legami
passati, biologici o letterari, combattuta tra lo spaesamento ricco d'inedite
possibilità dell'emigrato e il saldo richiamo della “Patria-Casa Puskin”. Molto
del Joyce proiettato sul samizdat venne mediato dalla scoperta del Nabokov
scrittore in lingua russa (parallelamente, si pensi ai tanti scrittori
italiani che per scoprire Joyce dovettero ricorrere ai testi di Eco) e solo nel
Sokolov degli anni '70 certe rigidità si
scioglieranno nella fluidità dei personaggi e nella dissoluzione
dell'intreccio, fino alla costruzione dell'eroe nel linguaggio e nella
scrittura. Negli anni di Gorbacev e della fine
dell'impero sovietico Shishkin, per niente spaventato
dall'opportunità delle citazioni e del riciclo, fa di Joyce l'emblema
dell'antenato smarrito e di un desiderio di liberazione (liberazione pure dallo
stesso disagio di sentirsi in ritardo nei confronti del letterato occidentale)
proponendosi come mediatore nella partizione, forse semplicistica, tra “l'amore
della parola” di tradizione occidentale, da un lato, e “l'amore dell'uomo”
incarnato in Gogol, dall'altro. Molto più
problematica resta l'acclimatazione in quella parte della cultura russa revanchista alla continua ricerca di stabili fondamenta
dopo il crollo dell'Urss, alleata alla chiesa ortodossa per arginare
l'espansionismo dell'occidente decadente: per Joyce, poche chance di attecchire
nell'ideologia della grande eterna Russia poiché laddove esiste lo spazio e non
la trama, e all'esperienza vengono meno gli appoggi, l'abisso va scongiurato
innanzitutto tramite la circoscrizione di quello spazio (Bitov).
L'opera joyciana, soprattutto l'Ulysses, dichiaratamente dislocata nel
suo preciso richiamo a Trieste, Zurigo e Parigi, associata al sospetto
cosmopolitismo dell'autore, ha scarse possibilità attrattive per chiunque salga
sul treno dell'alleanza popolo-trono-altare. Come non tenere a distanza un campione
dell'impurità, che a proposito dell'Irlanda (ma andrebbe detto per ogni patria)
scrisse :”quale razza o linguaggio può al giorno
d'oggi pretendere alla purezza?” dichiarando insensata ogni ricerca di elementi
“puri, vergini e immuni da quelli vicini”, per concludere che la purezza
permane solo nell'immaginazione dei tiranni?
Per “fogli di via”