Giuliano Galletta
presentazione di alcuni
brani di Hans Jonas, seguita
dai brani stessi
Pubblichiamo in questa pagina, per gentile concessione della casa
editrice il Melangolo, dei brani che son tratti dalle memorie del filosofo Hans
Jonas (1903-1993). Il libro - lettura appassionante in cui gli episodi della
vita quotidiana si mescolano con lo sviluppo di un pensiero originale e con i
grandi e tragici eventi della Storia - è il risultato di una serie di
interviste e conversazioni del filosofo con Rachel Salamander registrate a
Monaco di Baviera nell’89. Nel libro sono però contenuti anche testi di Jonas
di epoche diverse come “La nostra partecipazione a questa guerra. Una parola
agli uomini ebrei”, l’appello-manifesto scritto nel 1939, subito dopo la
dichiarazione di guerra dell’Inghilterra alla Germania, e di cui riproponiamo
l’incipit.
Si tratta di un brano significativo, non soltanto a livello biografico
- Jonas fu arruolato, dal 1940 al 1945, nella Brigata Ebraica dell’esercito
britannico e combattè anche in Italia - ma anche emblematico del modo in cui
Jonas intendeva la filosofia. Ovvero come un impegno etico, come “dover
essere”. Jonas voleva dimostrare «che l’essere è in grado di dire qualcosa su
come si deve vivere, ma soprattutto di definire anche la responsabilità di
creature come noi esseri umani che agiscono con cognizione e libertà».
È questo il tema ispiratore del libro più famoso del filosofo tedesco, Il principio responsabilità. Per un’etica
della civiltà tecnologica, pubblicato nel 1979, ed edito in Italia da
Einaudi. Per Jonas il concetto di responsabilità è il principio cardine di
un’etica laica e razionale applicata in particolare ai temi dell’ecologia e
della bioetica. Secondo il filosofo, l’uomo responsabile ha l’obbligo di
prendere in considerazione le conseguenze future delle sue azioni. Di fronte al
prevalere, nella riflessione novecentesca, di forme di nichilismo e radicale
relativismo per Jonas si tratta di restituire l’etica alla concretezza del
mondo e della vita, tenendo conto che la ricerca di principi universali
condiziona le decisioni e le scelte sull’ambiente, sull’economia e sulla vita
del genere umano. Un’etica così formulata diventa uno strumento “pratico” per
salvaguardare la Terra minacciata dalla tecnica, con le sue possibili conseguenze
distruttive. “Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano
compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana” è, per
Jonas, l’imperativo che dovrebbe guidare le azioni di ogni singolo individuo.
HANS JONAS:
L ’ERA TECNOLOGICA necessita di una nuova etica che fronteggi le sfide dei tempi. Heidegger ad esempio lo ha visto e ha tentato di coglierlo, sebbene ciò che ha da dire in proposito, la speculazione sul destino dello spirito occidentale che a partire dai Presocratici si sarebbe allontanato dalla verità autentica, mi appaia del tutto sbagliato. Basta soltanto riconoscere la mutata realtà dell’essere umano e la sua relazione con il mondo, inclusa la minaccia del suo futuro – e a questo mira l’abbozzo del mio pensiero. Naturalmente dovranno arrivare altri, più grandi di me, per creare infine quella filosofia che gli renda giustizia. Il mio approccio costituisce un primo tentativo.
La formulazione delle idee filosofiche che sarebbero diventate il nucleo teorico del mio libro “Il principio responsabilità” mi spinse a suo tempo a infrangere la regola, concordata con Hannah Arendt, di non mostrare mai all’altro i dattiloscritti in corso d’opera, ma solo i prodotti una volta terminati. Quando arrivai al capitolo sulla teoria della responsabilità, inclusa la parte riguardante la relazione genitori-figli, che si occupava del rapporto tra essere e dovere, di ontologia ed etica, ebbi bisogno di consiglio. Le detti dunque il testo e dissi: «Mi piacerebbe sentire cosa ne pensi».
Una sera ci incontrammo poi a casa sua e lei pronunciò la memorabile sentenza: «Prima di mettermi a parlare dei dettagli, voglio soltanto dire: per me una cosa è certa: questo è il libro che il buon Dio aveva in mente per te. Ed è scritto splendidamente». Fu una conferma meravigliosa. Per il resto ebbe da criticare di tutto un po’, cosa che dalla sua prospettiva di filosofa della politica era molto comprensibile. Ad esempio lei rifiutava completamente che la responsabilità essenziale dell’essere umano possa avere un fondamento biologico derivante dall’ordine naturale. Dal suo punto di vista quello è un rapporto liberamente istituito che deriva non dalla famiglia ma dalla polis, dalla convivenza statale o politica. E lei si richiamava ad Aristotele, che distingueva nettamente tra la sfera privata dell’organizzazione familiare e la sfera pubblica della comunità politica. Di quello era certa, e riteneva artificiale e innaturale che una cosa come la responsabilità del bene comune fosse secondo la natura, mentre nella tradizione occidentale essa era dovuta al contrat social.
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L’incontro con Heidegger. Essendo uno studente del primo semestre, io non ero ancora autorizzato a frequentare il seminario di Husserl, per cui mi iscrissi invece a quello per principianti, tenuto dal giovane libero docente Martin Heidegger. Al primo semestre, dunque, finii subito con Heidegger, naturalmente molto più difficile di Husserl, ma anche splendido pedagogo. (…) Se ricordo bene, la lezione di Heidegger trattava le “Confessioni” di Agostino. Arrivò in aula con un enorme libro sotto il braccio e teneva davanti il testo latino, e ricordo che della sua esposizione non compresi praticamente nulla, però ebbi l’impressione che fosse in gioco assolutamente tutto e che lui si sforzasse dal profondo per risolvere la questione. A quel punto accadde dentro di me qualcosa. Scrissi allora una lettera su Heidegger e su quell’esperienza, sulla sua incredibile difficoltà. (…) Tutto ciò andava oltre la mia comprensione, ma qualcosa mi attraversò l’anima, ossia la convinzione che quella era filosofia in cammino – il mio orecchio era testimone degli sforzi della filosofia, mentre la mia coscienza era testimone dei suoi risultati.
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Il congedo da Heidegger. Quanto all’originalità del suo pensiero, Heidegger è una straordinaria figura della storia dello spirito, un precursore che ha dischiuso terre sconosciute. Il fatto che il più profondo pensatore dell’epoca si fosse allineato al fragoroso passo cadenzato dei battaglioni bruni mi appariva per la filosofia una catastrofica débâcle, un’onta per la storia del mondo, la bancarotta del pensiero filosofico. Coltivavo allora l’idea che la filosofia dovesse preservare da cose del genere, rendendo lo spirito invulnerabile. Sì, ero addirittura convinto che il rapporto con le cose più elevate e importanti nobilitasse lo spirito di una persona e ne migliorasse anche l’anima. Ed ecco che ora mi rendevo conto che evidentemente la filosofia non lo aveva fatto, né aveva impedito allo spirito di pagare a Hitler il suo tributo, anzi, se i miei interlocutori avevano ragione, lo aveva addirittura predisposto apertamente. Questo non doveva essere. Tutti i fiancheggiamenti, i voltafaccia di allora, l’uniformarsi – da ogni parte venivano motivati con la stoltezza, l’accecamento, la debolezza, la vigliaccheria, ma che a prendervi parte fosse il filosofo più importante e originale del mio tempo, era per me un colpo terribile – non solo sul piano personale, ma nel senso di un evento determinante nella stessa storia della filosofia.
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La nostra partecipazione a questa guerra. Una parola agli uomini ebrei (1939). Questa è la nostra ora, questa è la nostra guerra. È l’ora che in questi anni fatali abbiamo atteso con la disperazione e la speranza nel cuore: l’ora in cui ci verrà concesso, dopo l’impotente tolleranza di ogni onta e di ogni ingiustizia, di ogni privazione fisica e di ogni umiliazione morale del nostro popolo, di incontrare finalmente il nostro nemico, guardandolo negli occhi con le armi in pugno; di esigere soddisfazione; di pareggiare il nostro conto, che era il primo da regolare; e di contribuire attivamente alla sconfitta del nemico mondiale, che sin dall’inizio è stato il nostro, e tale sarà sino alla fine.
Questa è la guerra con la quale soltanto il Male potrà di nuovo essere eliminato dal mondo; se non ci fosse stata, avrebbe continuato a proliferare senza misura né limiti, sulla strada del nostro annientamento: perciò questa è la nostra guerra. Su di essa abbiamo un diritto e un dovere di primogenitura. Dobbiamo combatterla insieme con altri perché altri la combattono per noi. Dobbiamo farla in nostro nome, in quanto ebrei, perché il suo esito riabiliterà il nostro nome. Il nostro spirito di sacrificio non deve essere inferiore a quello dei figli di quegli Stati che adesso hanno dichiarato guerra all’Hitlerismo. La dignità individuale, l’onore nazionale e la riflessione politica impongono ugualmente la nostra totale partecipazione a questa guerra. Per noi è un dovere, e per un uomo degno di questo nome deve essere una necessità.
“Il Secolo XIX”, 24 novembre
2008