Carlo Romano

graffi di Jacopetti

Stefano Loparco: GUALTIERO JACOPETTI. GRAFFI SUL MONDO. Edizioni il Foglio, 2014

Malgrado il successo dei suoi film, o forse in virtù dello stesso, di Gualtiero Jacopetti (1919-2011) se ne son dette di cotte e di crude. Quando nel 1975 divenne membro del comitato nazionale della “Costituente di Destra” voluta dal capo del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante, quello che la gran parte dell’opinione pubblica aveva decretato, che cioè Jacopetti fosse “fascista”, sembrò trovare conferma (eppure nel 1943 aveva aderito alla lotta partigiana). Ma l’epiteto era stato lanciato da anni e già ai tempi di Mondo cane (1962) lo sguardo disincantato del documentarista sulle faccende umane, specialmente se scabrose, gli aveva fatto collezionare un bel po’ di contumelie. “Stampa Sera” definì il film “spregioso” e la critica in genere mise l’accento sulla morbosità del regista preso da una “discutibile inclinazione al macabro e all’orrido” che farà definire Jacopetti un “netturbino cinematografico” (queste le parole usate allora da Lino Miccichè). Le cose peggiorarono nel 1966 con Africa addio. Il film raccontava di un mondo tribale alterato dal colonialismo che al momento della liberazione trascendeva nella crudeltà. “Gli eredi del cinema di Hitler” titolò “l’Unità” con un Roberto Alemanno preoccupato perché, a suo dire, per la prima volta “nel cinema italiano del dopoguerra”  un cineasta proponesse “un’esplicita ideologia neo.fascista”. Folco Quilici parlerà poi di “jacopettismo” e Morando Morandini di “cinema-mensonge”. Né le cose cambieranno nel 1971 con Addio zio Tom, un “docu-fiction” nel quale vennero ricostruite in studio le disumane condizioni della tratta degli schiavi.

A conti fatti ciò che non si perdonava a Jacopetti era il beffardo disinganno che il commento parlato dei suoi film enfatizzava. Il regista garfagnino (era nato a Barga) ebbe un solido passato di pungente giornalista. Nel dopoguerra si legò d’amicizia con Indro Montanelli, Leo Longanesi e Luigi Barzini Jr. finendo per collaborare al “Corriere della Sera”.  Collaborò anche al più popolare dei cinegiornali dell’epoca, “la Settimana INCOM” fra i cui redattori c’erano nientemeno che Giacomo Debenedetti, il grande saggista letterario, e Tullio Kezich, il critico cinematografico. In un’intervista Jacopetti spiegò la sostanza della sua collaborazione: “L’Italia era allora un immenso dormitorio con la censura democristiana e una borghesia ipocrita pronta a scandalizzarsi per un nonnulla. Così io mi divertivo mettendo in risalto la cattiveria e la mancanza di cultura”. Si beccò persino una condanna per aver pubblicato delle foto di Sofia Loren allora ritenute scandalose. In tema di fotografie, va ricordato che furono attribuite a lui quelle del corpo di Mussolini appeso a Piazzale Loreto. Ma l’impronta più profonda della sua attività giornalistica Jacopetti la lasciò con “Cronache”, il settimanale che all’annuncio della chiusura vedrà trasmigrare i collaboratori, a cominciare da Arrigo Benedetti che ne sarà il fondatore, ne “l’Espresso” (1955). C’erano, insieme a anticonformisti d’origine comunista come Giancarlo Fusco, anche i giovani Bruno Zevi, Antonio Gambino e Sergio Saviane. Sarà quest’ultimo a definire Jacopetti “il padre spirituale de “l’Espresso”, del quale fu a lungo il sarcastico e formidabile critico televisivo.

In quegli anni Jacopetti non smosse le acque già agitate della “dolce vita” romana soltanto col giornalismo. Affascinante bell’uomo  - una colpa in più – aveva fama di play-boy. Pare che Federico Fellini si ispirasse a lui nel tratteggiare il personaggio di Marcello Mastroianni ne La dolce vita. La sua “conquista” più chiacchierata sui rotocalchi – ma l’amore era vero - fu quella di Belinda Lee, la bellissima attrice inglese che in precedenza era stata legata al principe Filippo Orsini. Nel 1961, in California, in un incidente automobilistico, la Lee muore. Dall’incidente il regista ne uscirà vivo, ma tormentato dai rimorsi, più che dagli acciacchi, tanto da cercare di lenirli con l’uso della morfina. Il grande clamore Jacopetti l’aveva tuttavia destato nel 1955 allorché fu accusato di aver violentato Jolanda Calderas, una zingara minorenne. Per non finire in carcere accettò un matrimonio “riparatore”.

Con queste premesse che anche il suo cinema diventasse fonte di scandalo era nelle cose. “Settimana INCOM” a parte, un primo contatto col cinema Jacopetti l’ebbe in qualità d’attore con un piccolo ruolo di avvocato (da “figurante” viene da dire) in Un giorno in pretura di Steno. Successivamente lavorerà alla sceneggiatura de Il mondo di notte, diretto da Luigi Vanzi, e di Europa di notte, diretto da Alessandro Blasetti. Questi documentari del 1959 furono l’anticamera di Mondo Cane, perlomeno nella comune divisione in brevi capitoli, che però nei primi due consistettero soprattutto nel voyuerismo da night-club. Nel 1961 sarà anche, sulla base di un suo soggetto, fra gli sceneggiatori di Che gioia vivere, un’amabile commedia diretta da René Clément che guardava con simpatia al mondo dei sovversivi anarchici nella Roma del 1921. In sostanza Jacopetti fu una sorta di liberale senza bandiera che adorava sbeffeggiare l’ipocrisia, il conformismo, l’intruppamento. Coi suoi film, sempre accurati, rinnovò il linguaggio documentaristico e mostrò per la prima volta al pubblico internazionale le immagini che nessuno osava mostrare.

Stefano Loparco ha costruito il suo libro investendo su vari piani i dati biografici e filmografici. Più debole, va detto, risulta l’aspetto estetico, decifrabile in parte nel sottotesto dei capitoli che riportano largamente le polemiche suscitate dai singoli film. Ma il libro si raccomanda innanzitutto per aver rotto il silenzio attorno a Jacopetti e alla sua vicenda umana, giornalistica e cinematografica, un tempo così discussa in una moltitudine di spropositi.

“Fogli di Via”, novembre 2014