La lettera
che segue è stata inviata dal regista, sceneggiatore e operatore Giampaolo Lomi a Maurizio Cabona per essere
letta, presso la Fondazione De Ferrari, in occasione della presentazione di Jacopetti files, il libro di
Fabio Francione e Fabrizio Fogliato (Mimesis, 2016) che ricostruisce meticolosamente -
attraverso riflessioni, testimonianze e soprattutto i resoconti della critica
d'epoca, per lo più avversa - la filmografia dei cosiddetti "Mondo movies" nelle loro diramazioni che, a partire dalle
intuizioni e dai lavori di Gualtiero Jacopetti, coinvolgono fra gli altri i
suoi antichi collaboratori in opere proprie (Franco Prosperi, Paolo Cavara, Stanis Nievo, Antonio Climati, Mario Morra, i F.lli Castiglioni).
Giampaolo Lomis
Testimonianza per la
presentazione di Jacopetti files
Caro Maurizio,
ero in Brasile nel 1975
quando mi telefonò Antonio Climati, col quale non
avevo più rapporti di lavoro dopo Addio zio Tom (1971), anche
perché la conclusione di quel periodo non era stata indolore. Concluse le
riprese di Addio zio Tom, Gualtiero Jacopetti
aveva fatto terra bruciata intorno a Climati, memore
che foto scattate a Port au
Prince (Haiti) - dove lui faceva il bagno nella piscina del liceo Pétion con ragazze e ragazzi neri e smitizzando la fama di
razzista - erano state vendute a sua insaputa a vari giornali.
Al telefono, Climati mi disse che Goffredo Lombardo l’aveva chiamato per
fare un documentario, La grande caccia, che avrebbe dovuto chiarire
il rapporto reale fra uomini e animali. Lo spirito era, o doveva essere,
mostrare che l’uomo caccia per sopravvivere fin dai tempi dell’età della
pietra. La prima parte delle riprese, durata mesi, era stata diretta da Stanis Nievo in America latina. Vidi alcuni pezzi in
moviola. Ebbi l’impressione di ritrovarmi nella moviola di Mondo cane per
i tagli ad effetto, alcuni assai violenti, ben girati e ben diretti e
soprattutto molto corretti.
Goffredo Lombardo mi
offrì di dirigere la seconda parte del film, da girare in Europa. Accettai per
un periodo di tre mesi, interessato a mostrare aspetti della caccia in questo
continente, dove l’uomo forse non cacciava più per campare, anche qui senza
cattiverie, aspetti eclatanti, cercando di mantenere l’obbiettivo sulle ragioni
per le quali il film era nato. Così ci mettemmo a tavolino per stabilire ciò
che dovevamo fare. Partimmo da Roma con due auto cariche di tutti i materiali
occorrenti, più il sottoscritto, Antonio Climati, la
sua amica Eveline Bridelle
(francese conosciuta ad Haiti durante le riprese diAddio
zio Tom), Emilio Lari (marito di Sidney Rome),
Franco Abussi e Claudia Ruspoli.
Stanis Nievo era scomparso: non ho mai saputo perché,
forse per incompatibilità di carattere con Climati...
Le riprese furono
possibili solo grazie a Claudia Ruspoli, che ci
introdusse nel mondo super snob del jet-set francese, quello
che cacciava il cervo, la volpe e quasi tutto il resto. Le situazioni furono moltissime
e girammo molto materiale in circa tre mesi, il tempo di creare piccole
situazioni che si presentavano sempre grazie alle relazioni di Claudia Ruspoli. Climati rimase avvinto
dalla Camargue e dai suoi cavalli bianchi. Materiale bellissimo, che fu poi
molto ben montato da Mario Morra.
Io feci la regia di non
si sa bene che cosa. Non c’era copione e mettevamo in cantiere ciò che la
realtà poteva offrirci. Per esempio, volpi inseguite da cavalli con cavalieri,
uccise a morsi dall’orda dei cani. Una scena che mi piacque moltissimo e che
volli girare ad ogni costo fu quella poi rimasta anche nella versione finale
del film, quella uscita nell’ottobre 1975, ovvero Ultime grida dalla
savana.
Avevamo conosciuto il
professor Zing, austriaco, morto nel 2004, e grande
studioso della vita dei lupi. Accettò di farci girare delle scene di quegli
animali (che erano debitamente sistemati in un ambiente vasto e naturale, ma
protetto da doppio strato di filo spinato). Lui entrava e ci passava anche le
notti, appollaiato su una specie di capanna eretta su un albero, dalla quale
chiamava il branco dei lupi, che rispondevano al suo “ululato”, riproduzione
perfetta delle frequenze d’onda che i lupi riconoscevano.
La scena finale prevedeva
che il professore, in un campo di neve fresca ed alta almeno 40 cm, avrebbe
avvicinato un lupo, che dopo poco gli avrebbe leccato la mano, con gesto che
ricordava san Francesco d’ Assisi a Gubbio. E così fu. Solo che impiegammo
varie ore con gli stivali nella neve, congelati e impietriti, prima che si
verificasse la leccata, come si può ammirare alla fine del film.
Dopo il montaggio fatto
da Mario Morra, La grande caccia uscì al cinema Manzoni di
Milano, con una prima organizzata alla presenza di autorità e pubblico. Il film
non ebbe successo, perché era noioso e non diceva, né mostrava di più di quanto
la gente più o meno sapeva già. Durò meno di una settimana, sempre al Manzoni,
poi Goffredo Lombardo lo ritirò, convocando tutti noi in una riunione nella sua
famosa sala del “trono”.
“Ragazzi, il film non
funziona”, esordì. Facciamo qualcosa perché un fiasco del genere non ve lo
perdono. Inventate, girate qualcosa che lo renda attraente, o non ci sarà una
lira per nessuno”. Successe di tutto. Proteste di Climati,
di Lari, mie e via dicendo. Fu a questo punto che entrò in campo Franco
Prosperi, sollecitato dal nipote. Ricordava di aver letto su che un turista
imprudente era stato mangiato vivo da un leone. E che in Amazzonia avevano
inventato uno spettacolo per divertire i turisti sadici, ma ricchi, e che si
poteva fare il tiro a segno con gli indios, poi evirarli. Poi una idea più
raffinata fu inventare una tribù di africani, convinti di far l’amore con la
terra, affinché potesse dare i suoi frutti.
Di queste tre scene, una
fu girata in Sud Africa, servendosi dell’”animalaro”
di Africa addio. In 8 mm, per renderla più credibile, Climati la scena del turista, col leone che sbranava un
manichino fatto da Carlo Rambaldi e colmato di frattaglie di coniglio. Intanto
la famiglia del turista si disperava. Mattanza ed evirazione degli indios fu
invece girata nel parco di Gianola (Latina), dove
abitava e abita Franco Prosperi, con comparse giapponesi, dotate di pene finto,
pieno di “sangue technicolor”, che al primo taglio - con stacco immediato – si
spargeva intorno. Era ciò che lo spettatore voleva... La terza scena consisteva
in un gruppetto di giovani neri, nudi e ben dotati che facevano un buco nel
suolo. Poi vi appoggiavano il pene eretto, cominciando, tutti insieme, il rito
di fecondare la madre terra…
Al cinema Sistina di Roma
il film uscì di nuovo col titolo Ultime grida dalla savana.
Fu un trionfo, superando i sei miliardi di Mondo cane...
Lombardo era raggiante, Climati anche. Ma il resto
della troupe pianse lacrime amare. Nievo e io fummo pagati una
sciocchezza. Franco Abussi idem, Prosperi non volle
apparire nei crediti in coda al film. Più signore degli altri, Nievo non fece
niente. Abussi e io invece facemmo causa a Lombardo.
Vincemmo, ottenendo di non apparire nei titoli, ma in quelli di coda appare
ancora il mio nome e, credo, quello di Franco Abussi.
Mario Morra e Climati (che erano soci) apparvero come
registi.
Ovviamente non ho più
lavorato per la Titanus, anche perché non ero stato pagato nemmeno nel 1973 del
documentario sui guaritori, dal titolo Monument
to a Philipino Spirit!