Les
métamorphoses de Bacon è un testo del
1977, ripreso in E. Jabès, Un regard,
Montpellier, Fata Morgana, 1992, pp. 23-25.
Edmond Jabès
le metamorfosi di Bacon
Colpisce, in Bacon, quello squilibrio
che è l’equilibrio stesso della tela; quella violenza che è l’espressione
stessa della pittura (del colore) spinta fino al parossismo.
Tutto oscilla e si sviluppa
nell’inatteso sconvolgimento che si attua sotto i nostri occhi e che il corpo
dipinto del modello (uomo o animale), strappato allo scenario estraneo, sposa
ed accentua.
L’oggetto deformato riceve, da questa
deformazione, la sua forma naturale, armoniosa; mai sospetta.
Una pittura non del corpo accettato nei
suoi limiti apparenti, ma del dettaglio esagerato, sviluppato in proporzione al
dispiegarsi di un corpo quando sia posto a confronto col proprio doppio, col
proprio triplo, con se stesso; riflesso vertiginoso, che impone la vertigine.
Una pittura, anche, del fiato energico,
del sangue, dell’ambizioso sforzo muscolare, del respiro mozzato.
Là, il grido è il personaggio divenuto
grido; altrove, il riso è il mostro divenuto riso; qui, il volgare bloc-notes è
il suo utente abituale divenuto pegno abusivo di una quotidianità mediocre.
La metamorfosi che Bacon fa subire agli
esseri, alle cose, non è altro che lo spostamento sistematico (effettuato
sempre su un fondo neutro, assente) del reale verso un «più che reale», che a
posteriori appare prevedibile, perché colto nei suoi momenti cruciali,
voluttuosi, di intensa verità.
Il luogo viene abbandonato per un luogo
diverso, spesso insolito, ma come se tali luoghi potessero coesistere; da qui
l’impressione (falsa) di velocità folle, padroneggiata nella sua circolarità
insostenibile.
Bacon ha scoperto la rotondità
allucinata della tela, disperatamente inchiodata, si direbbe, ad una ruota
invisibile, appassionata di sé, che nessuno potrà mai bloccare nella sua
ebbrezza giratoria. Preda dello sguardo, anche noi siamo trascinati con essa,
dai capelli alle dita dei piedi e persino dal fondo dell’essere, non più
dominato dal pensiero.
Tutto si giocherebbe, così, ai diversi
livelli di una superficie ammaliante, in cui il passato incontrerebbe
l’avvenire per le nozze più carnali; in cui la nascita della forma assisterebbe
al suo prodigioso compimento; in cui il colore sperimenterebbe tutte le gamme,
quasi strappandole al loro destino, per un’avventura che di continuo brucerebbe
le tracce (le tappe), al fine di non essere più, nell’indipendenza del
passaggio, nient’altro che la propria folgorante emancipazione.
(trad. di Giuseppe Zuccarino)