Jean Montalbano

lo strappo di Feldman

In Italia piaccio molto (Feldman, 1973)

Ci sono voluti 40 anni perché l'editore Adelphi desse seguito alla promessa traduzione degli scritti di Morton Feldman che accompagnava l'assaggio del testo Nec...Nec (Neither/ Nor) in un vecchio “Adelphiana”. La pubblicazione di questi Pensieri Verticali del musicista americano (trattasi della raccolta nota in originale come Give My Regards to Eighth Street) che allora sarebbe apparsa coraggiosa e dirompente, intempestiva certo, oggi che Feldman si porta ovunque bene, per qualcuno avrà pure un sapore scontato di celebrativa ratifica. Allora i suoi dischi erano rari quanto una sua foto senza sigaretta; oggi, mentre festeggiamo il secolo dalla nascita di Cage, colui che qualche critico militante incasellava come suo più trascurabile coinquilino, Feldman appunto, da parecchi anni gode di un'attenzione editoriale con pochi eguali, complice un'apparente facilità e semplicità delle sue, a volte pur interminabili, creazioni, consumate da alcuni come conforto e ristoro dopo i disturbanti ed ingrati fogli e diagrammi volanti di Cage.

Al tempo di un iperattivo (anche da noi) Cage la figura imponente di Feldman sembrava quella dello zio meno scapestrato e più controllato (benché non gli fossero alieni atteggiamenti umoristici quando non scopertamente dissacranti)  tanto da  rischiar di passare per il volto più rassicurante e carino, gradevole e rilassante, della sperimentazione americana, un po' come l'amico Philip Guston rispetto agli eccessi di un Pollock. Impressione errata. Ora, della complessiva e improbabile scuola di New York (con C. Wolff ed E. Brown) è l'autore di The Viola in My Life e Crippled Simmetry che sbaraglia il campo. E, se tralasciamo  i soliti annosi italici problemi di ricezione (segnalando en passant che nel frattempo Marco Lenzi aveva pubblicato la sua Estetica musicale di Morton Feldman) la lettura della raccolta di testi eterogenei è ancora gustosa e le frecce della polemica feldmaniana verso l'accademia degli sperimentatori universitari per niente spuntate.

Attento a non apparire un enfant terrible di mezza età (come, da New York, gli sembravano quanti si installavano nel posto lasciato libero da Schoenberg e rielaboravano gli stessi ingredienti già serviti per confezionare una delle tante torte viennesi per la borghesia) Feldman rispose all'appello di Cage (“sciogliete le righe”) trovandovi echi di quanto già andava cercando: gesti vagamente definiti e delineati, un disegno più libero su carta non rigata. Vale a dire anti-costruttivismo, anti-struttura, anti-Boulez (il francese, più di Stockhausen, è il perfetto esponente della politica del “lève-toi que je m'y mette” dal Nostro tanto detestata) e dunque attenzione a come un pezzo suona all'ascolto più che a come è composto. Anti-dialettica, sulla scorta del prediletto Varèse. Furono la fisicità ed immediatezza della pittura americana del dopoguerra a vaccinarlo dalle astrazioni e dal costruttivismo che traviò a suo dire la musica di tanti suoi “colleghi” spingendoli ad imprigionare i suoni in una retorica compositiva anziché proiettarli lasciandoli vivere nel tempo. Il risultato da loro ottenuto era stato l'allestimento di macchine sonore  fondate su automatismi che misurando il tempo ne perdevano l'origine e, con essa, la naturalità del suono. All'altezza della prospettiva newyorkese, in cui a dominare saranno i silenzi, gli stupori e gli abbandoni, risultava chiaro come la catena divina incarnata nella storia musicale che discende da Bach e Beethoven  apparisse a Feldman un fatto tradizionale, in quanto tale etnico e non più etico, ideologico prima che mitico.

“E che altro è la tradizione, se non l'idea che se succhiamo il sangue e il sapere del passato ci approprieremo della sua forza” disse.

Gran parte della musica a lui contemporanea gli pareva non fare altro che dire-suonare la propria costruzione (in questo Cage e Boulez erano vicini) senza tener conto della “strana resistenza dei suoni ad assumere un'identità strumentale”. Lo strumento meno virtuosistico sottrae pur sempre immediatezza al suono, caricandolo di significato ed enfasi lo sfoca, mettendolo in scena lo estetizza. Dunque, si autoammoniva Feldman,  “non fare il prepotente con i suoni”. Nel suo abbandonare quella storia risuonava il no alla mistica della costruzione e del fare musicale, come se scegliere di essere nella storia, identificandosi nel suo processo-successo, fosse indice di autoritarismo, quando non di terrorismo: ma “il suono è ignaro di Storia”, non avanza per contrasti dialettici. Il compositore per cui la verità è processo-sistema, consente che il sistema pensi e si emozioni al suo posto. Gli sfugge quella musica che non nasce da un “significato musicale” ma dal respiro umano, mentre il musicista che non voglia dissipare il suo talento “perde la presa” sulla musica. Solo allora il suono, sottraendosi al controllo e al dettato automatico del ritmo, va organizzandosi  come cristallo per proprie linee di forza: non più note, solo primo respiro. Ritraendosi, Feldman lasciava che il materiale si sciogliesse dall'abbraccio volontaristico del musicista. Così arrivava al tempo “indisturbato”, al tempo come esso è nella giungla, non allo zoo, prima che l'uomo (la mente, l'immaginazione compositiva) ci metta le mani sopra. Dei tre vertici del triangolo compositore- esecutori-pubblico è quest'ultimo a scapitarne: una volta perso il filo della dialettica o il senso di una direzione il come ascoltare diventa problematico, senza tener conto che per alcune composizioni la durata, anche se forniti di comode sedute, risulta respingente. Talvolta, per tagliar corto, è la musica stessa che ascolta per il pubblico.

Per questa prassi il controllo doveva limitarsi a quel minimo che permettesse di definire “propria” una composizione a rischio di evocare immobilismi e stupefazioni extraeuropei. “Mi interessa la stasi. È un fermo immagine, e al tempo stesso è vibrante”. Inizio, svolgimento e fine di un brano risultavano per niente ovvi. Deludendo il percorso che avanza per cause ed effetti, Feldman dissestava la percezione consolidata del tempo, come avvenne già nella durata del primo String Quartet e quando smise di essere il “maestro della reticenza” vestì l'abito del “rabbi delle lunghe pause”. Gli stessi attacchi andavano sabotati in quanto gesto fondativo. Assorbito nel decadere del suono, Feldman provava a cancellarne la sorgente contemplandolo mentre si allontanava e ritornava nella ripetizione di situazioni per lievi cambiamenti. Immediatezza e naturalità d'approccio, campiture sonore dove tenui dinamiche e registri volentieri indeterminati non turbano l'equilibrio di superficie, tutto questo era raggiunto rinunciando a gran parte degli attrezzi compositivi tradizionali, ai principi-guida tramandati. Per asciugature e riduzioni successive, nella composizione riuscita ogni elemento doveva concorrere a comunicare, oltre l'apparente pulviscolo di eventi, una tensione e un senso d'ineluttabile non meccanico, ma ancora artigianale. Orchestrare equivaleva per Feldman a comporre senza lasciarsi distrarre dall'immaginazione, dal momento che ogni altra cosa, anche la musica, una volta entrata nel mondo dell'immaginazione (della memoria) è perduta. Allora, sostenne,  rischiamo di non udire quello che udiamo ma ciò che ricordiamo. Solo il suono fisico aiuta ad evitare quell'abbandono al sogno ad occhi aperti intellettuale, lo stesso tenuto vivo dal novecento dominato dalla tradizione e dal mito del controllo, dalla storia della musica invece che dal fare musica. Musica che deve sfuggire al metodo del compositore e, spintolo da parte, lasciare intuire un'aura di pericolo fuori controllo: l'arte riesce dove il compositore (la cultura) fallisce. Perciò la sua emozione specifica ha un elemento d'angoscia che l'orchestrazione, nel caso feldmaniano, tiene a bada. Presto anche a lui fu chiaro che i pittori suoi compagni di strada, gli action painters come vennero denominati, scoprirono di non voler essere salvati nell'arte e che non gli importava  dare “nessun contributo” all'arte. Solo tentarono di sopravvivere senza inventarsi una dialettica salvifica. Li guidava forse la certezza che non si arriva al paradiso con i fatti, con la conoscenza, con le idee. Anche per questo lato, al di là del lutto per Schubert, più volte evocato, Feldman voltate le spalle all'eredità europea e come ad incidere maggiormente un taglio, arrivò a esprimere l'aspirazione ad essere il primo musicista jewish.

“L'arte è un'operazione cruciale e pericolosa su noi stessi. Se non rischiamo, come artisti siamo morti”. E farlo mentre ci si guadagna il pane confezionando abbigliamento era l'altro polo della sua rivendicata ebraicità nel grande ghetto russo che era ancora New York negli anni cinquanta. Per sé, espresse il vigile dubbio di non avere scardinato certe consuetudini, ripetendosi: ”ho aggiunto un altro anello alla catena, e l'hanno chiamato libertà”. Se in sede di bilanci,  forte di commissioni ed incarichi infine ottenuti, Feldman poté concedere di aver fatto qualcosa che col tempo gli veniva riconosciuto, l'inquietudine soggiacente ai plausi tributatigli lo portò pure a domandarsi, come da manuale dello sradicato: “sapete, non mi piace come vanno le cose in America, voglio tornarmene da dove sono venuto. Non voglio la Rive Gauche, non voglio la brughiera inglese. Voglio tornare da dove sono venuto. Ma dov'è? Lo sapete voi?”.