Jean Montalbano

 Martinet o il gusto del peggio

Jean-Pierre Martinet: LA NOTTE IN CUI EBBERO PAURA, Barbès 2010

Chiosando Henri Calet, Jean-Pierre Martinet  (1944-1993) ripeteva che il passato, diversamente che in Proust, non abbellisce nulla. Dove questi vedeva fanciulle in fiore, quello scorgeva "puttanelle dalle dubbie mutande". Nessun passato che passa, solo la notte che torna e l'infanzia come miseria ed umiliazione. E dal momento che ci sono soltanto cadaveri, l'essenziale è saper aspettare. Pur non essendo abbastanza corazzati per la vita bisogna vivere o  almeno provarci, fingendo di crederci e risultanto alla fine non più di un "cattivo figlio, cattivo fratello, cattivo amante, cattivo padre". Calet, scrittore fraterno, con la cui malinconia consonava, fu con Vialatte, Caillois, Malet un punto di riferimento nella rivista " Matulu " cui Martinet collaborò quando ancora gli studi di cinema ed il lavoro all'ORTF potevano far sperare nel sospirato passaggio dietro la macchina da presa.

Poi con gli anni e l'accumularsi di delusioni Martinet divenne sempre più simile ai personaggi ( rovinati, alcolizzati, febbrili quando non folli ) tratteggiati dai registi e scrittori preferiti: Ozu, Dreyer, Hardy, Bely, Lowry.

Le sue pagine diventarono soliloqui di individui abbandonati la cui sola chance erano gli incontri e scontri con esseri altrettanto allucinati, dentro le atmosfere oppressive di città-gironi infernali in cui la mappa di Parigi stinge su quella di Pietroburgo.

Qui ritroviamo tutto quanto i francesi riassumono nel termine noirceur. Assurdo, disperazioni, incubi e cattivi sogni sono gli ingredienti che spinti all' estremo danno nel grottesco; ma l'umorismo amaro non allevia il tragico portando anzi altra corda in casa dell'impiccato. L'alitare del grottesco svela la ferita che non si rimargina. Trovare gli eserghi per i propri libri è presto fatto, si va da David Goodis a Louise Brooks ("Ma vie ne fut rien"). E proprio il maledettismo che accompagna la ripubblicazione di Martinet e lo addobba con gli stracci di "Dostoevskji della Dordogna" rischia, se non sorvegliato, di seppellirlo col ridicolo degli elogi ritardati ed iperbolici.

Anche in La notte in cui ebbero paura (Barbès 2010) suo primo testo, credo, tradotto in italiano, Martinet evoca i suoi "inguaiati", esseri colti nella fase immediatamente precedente la clochardizzazione, mentre le loro poco scintillanti occupazioni evolvono affannosamente nell'ambiente cinematografico e televisivo (e forse proprio per questo, ancora più feroce è lo smascheramento perseguito dallo scrittore). Tra cinefili incalliti anche un tumore, come un uragano, riceve un nome, quello di Dragonard, alter ego del protagonista e attore fallito Maman, si chiama Yasujiro e convive con un progetto, mai concluso, di film tratto da un pulp di Jim Thompson. Entrambi, tumore immaginario e script irrealizzato, danno dignità e mantengono in vita questi falliti.Come tutti i naufraghi dell'esistenza ognuno ha il suo cancro, quello di Maman si chiama Marie Beretta, ex compagna e attrice di nessun valore ma il cui ricordo lo perseguita al punto da conficcarglisi in testa sotto forma di proiettile sparato dall'omonima pistola.

Ciò che salva le pagine del racconto dall'essere referto deprimente di gemiti e deprecabili pianti è la voce di Martinet, spalancata ai venti della follia e dell'allucinazione, la stessa che con Jérôme si rivelò a pochi lettori nel 1978. In una Parigi notturna, malefica, senza rimedio immersa nel male assistiamo ad un dialogo tra sordi tessuto da un profluvio di parole che equivale ad un ronzio inconcludente. Come  un Emmanuel Bove che avesse distillato solo amarezza, fiele e disincanto dalle pagine di Céline e Bernanos, l'universo-Martinet deve molto all'uomo del sottosuolo del grande russo che inaugurò il filone romanzesco denigratorio e autoderisorio in cui ci si suicida senza morire e si parla solo per tentare l'assoluto della malinconia; quello dei viaggi in fondo alla notte che, nel nostro caso, partono e tornano al bancone del bistrot o della birreria. Tutto, pur di resistere alla nostalgia delle carezze e degli amori e vigilando affinché il proprio ironico auto-necrologio non debordasse da un secco: "Partito da niente, Martinet ha completato una traiettoria esemplare: non è arrivato da nessuna parte". “Fogli di Via”, luglio 2011