Carlo Romano
Islam, società civile e
mercato
Non si può tacere che Oriana Fallaci ha conferito alla libellistica
nostrana un furore generalmente sconosciuto. Forse per questo da qualche anno c’è
chi la crede la più grande scrittrice italiana. Anche accettando questo punto
di vista, si dovrebbe perlomeno andar cauti con le asserzioni sfoggiate,
bombardando senza sosta il lettore, dalla giornalista con l’elmetto. Che, ad
esempio, possa accusare i musulmani di non avere un termine analogo al nostro
“libertà” ma soltanto una parola che indica l’affrancamento degli schiavi (La
forza della ragione, Rizzoli 2004, pp. 88) non glielo si dovrebbe
lasciar passare tranquillamente, dal momento che la radice latina della nostra
parola allude allo stesso processo. La Fallaci ha tuttavia buon gioco in un
contesto nel quale “lo scontro di civiltà” risulta essere un suasivo espediente
culturale capace di escludere mezzo mondo, quello di religione musulmana per l'appunto,
dal corso intellettuale e materiale della restante metà, in particolare dalla
concezione del libero mercato.
Avendo casa negli Stati Uniti d’America, alla scrittrice non dovrebbe
tuttavia essere difficile accedere a talune informazioni e apprendere quindi
che fra i più accesi e radicali sostenitori americani del laissez-faire, vale a
dire i libertarians, ci sono anche alcuni fedeli musulmani. Per dirne
una, nel Winsconsins, un musulmano, forte di una grande maggioranza, è stato
scelto nel 2004 come candidato al senato per il Libertarian Party. Tracce di
gruppi animati da un’analoga visione si trovano del resto in diversi paesi
africani ed asiatici. È diffusa opinione in questi gruppi che la storia
politica recente dell’Islam – con annesse le tragedie causate dal terrorismo -
sia stata condizionata più dai modelli del nazionalismo statolatra occidentale,
nelle sue diverse espressioni demagogiche, che dal rispetto della dottrina
religiosa. Ancora una volta pare congruo ricordare la presenza nelle falangi
dell’orrore di uomini perfettamente addentro al mondo occidentale, persino
nati, cresciuti ed educati (Harvard, London school of Economics ecc.) in questa
parte del globo. Ciò detto, è impossibile trascurare il dubbio, che rimane
forte in molti commentatori, se l’Islam possa essere compatibile con altri
nuclei di irradiazione religiosa e morale.
Alla domanda se l’Islam sia coerente con una società che preservi la
libertà delle persone, i loro averi e la loro integrità fisica hanno risposto
nel 2002 diversi autori (Barry, Kukathas, Doering, Erdogan, Aslan) in un volume
curato da Atilla Yayla per la Liberty Books di Ankara e recentemente pubblicato
in Italia, su sollecitazione di Dario Antiseri, da Rubbettino col titolo Islam
ed economia di mercato (pp. 108, Euro 10). Nel primo dei contributi, quello
di Dan Barry della Buckingam University, la domanda è rovesciata: perché
l’Islam non è riconosciuto come parte integrante della teoria sociale e
politica liberale dal momento che la sua dottrina è coerente con essa? Barry,
fra l’altro, ricorda che già nel XIII secolo - prima dunque della scuola
tomistica di Salamanca, per non dire di Adamo Smith - lo scrittore musulmano
Khaldun aveva individuato la teoria del libero mercato e del capitalismo. La
spinosa questione della proibizione dei tassi di interesse usuraio (spinosa lo
fu del resto anche per il cristianesimo) riceve, compatibilmente col carattere
propedeutico del libro, un veloce ma persuasivo trattamento e, piuttosto,
dovrebbe rivestire uno straordinario rilievo per i liberali il fatto che la
legge islamica contempli oneri fiscali più leggeri rispetto ai nostri.
“Il
secolo XIX”, luglio 2005