Jean Montalbano
les arts incohérents: l'arte del prendere
in giro
Ancora oggi, considerate storicamente nel
retrovisore, le “arti incoerenti” sembrano avere qualità di specchio profetico,
tanto da far esclamare ad alcuni storici, senza prudenziali perifrasi, che lì
c'era già tutto, o molto, di quel che seguì. Tesi dalla cui superficialità
Daniel Grojnowski e Denys Riout, co-autori di Les arts incohérents et le
rire dans les arts plastiques (Éditions Corti 2015), prendono le
distanze edotti di come, tra il 1880 degli Incoerenti e il 1916
di Dada, si aprano decenni di confusione e false piste su cosa propriamente
siano arte e humour (e comunque, Tzara sarà secco: “Dada è un altro modo di
dire humour”). Seguendo il solco delle scoperte e intuizioni di F. Caradec, ma
senza l'ansia di cercare o denunciare precursori e imitatori, per gli stessi
fumisti, incoerenti o zutisti sembra venuto il tempo di disfare leggende ed
imbrattare aure ingigantite da devoti ammiratori e scarsi collezionisti. Del
resto già un giovane F. Fénéon, a margine dell'esposizione del 1883, segnalava
come accanto ad opere follemente ibridi, nel solco di elucubrazioni epilettiche
ed esilaranti, permanessero esempi al ribasso di facezie da sagra paesana, a
conferma che, manco fra incoerenti, il cliché perde i suoi diritti. Se la
facilità delle trovate saziava, a quel tempo, un buon numero di spiriti
parcamente caustici, va ricordato come a quei raggruppamenti di bons vivants
che via via scelsero di chiamarsi fumistes, hydropathes, hirsutes, incohérents
appartenessero pure lo scettico e mistificatore Charles Cros allorché
presentava una sua ode al vino, la Chanson des Hydropathes, come un inno vedico
o l'ottimo Sapeck che esponeva una Gioconda con pipa.
Proprio tenendo conto della quasi nulla circolazione
di opere incoerenti, è lecito chiedersi se, nella valutazione delle poche
superstiti, non giochi un ruolo forte l'effetto d'illusione retrospettiva che
ne aumenta il rilievo solo riferendola a quelle di decenni posteriori, come
esemplificato dal caso delle “manomissioni” sulla Gioconda o del “monocromo”
novecentesco di cui si scopre papà A. Allais.
Permanentemente precaria fu la stessa composizione
di quei gruppi del secondo ottocento francese (e, in piccola parte, belga)
aggregati instabili di personalità, vicini di tavolata e bancone prima che di
scelte estetiche tranchantes, per i quali la serata al cabaret viene
prima della corsa in tipografia con le ultime bozze: incoerentemente dediti ad
espressioni artistiche cui per primi si dichiaravano loro stessi inadatti.
Le vie dell'incertezza su cui si spinse un gioviale
Jules Lévy (scoperto animatore e mente propulsiva) quando organizzò lo spirito
ludico ed erratico degli anni 1880 con il primo Salon delle Arti Incoerenti e
poi con balli, mascherate, riviste e sfilate, oggi a noi sembrano altrettante
occasioni per trapiantare i valori plastici nella vita sociale. Se poi, come a
riprese notano gli autori del libro, mancavano un progetto o un manifesto, i
gesti e le opere “a perdere” restano. Dove non c'è traccia di documenti
programmatici, ma postura d'artista, non linea estetica ma spirito
effervescente che le si sottrae, ci resta spesso solo cogliere una
testimonianza sbiadita negli scritti contemporanei o di poco successivi (anche
nelle peripezie dell'Odette proustiana ne rimarrà eco).
Ad accostare arte e riso già si erano provate le
mostre di caricature in luoghi destinati all'arte seria e, in vista del primo
centenario della Rivoluzione, si tenne pure un'esposizione dei Maestri della
caricatura francese, sul prolungamento delle intuizioni baudelairiane avanzate
nello scritto “Sull'essenza del riso, e del comico in genere, nelle arti
plastiche”. Molteplicità incoerenti e proposte singolari si avvicendavano senza
il riparo (se non quello provvisorio dell'esposizione) di una causa comune
esorbitante la gaiezza e il buonumore. Figli della disillusione post- Sedan,
sciolti dal fardello di destini imperiali, apparentemente estranei ad ogni
schieramento politico, lontani da pose e dichiarazioni incendiarie, tanto
diffuse in quegli anni, gli incoerenti finirono, ma ci volle un secolo, al
museo. Meglio, vi approdò quel poco di sopravvissuto al perdurante disinteresse
seguito al decennio 1880-90: al Musée d'Orsay, nel 1992, si dovettero esporre
soprattutto documenti e ricostruzioni di “opere” scomparse, distrutte o perdute
in sottoscala o cantine, destino manifesto per oggetti che non sdegnavano
materie umili come pane o formaggio. Di disinteresse, invece, parve mancare uno
dei più titolati prosecutori, Duchamp,
distaccato eppure attento a reiterare ed autenticare l'unicità dei propri
ready-mades replicati in edizione limitata per la gioia degli amici galleristi.
La breve primavera dell'incoerenza distribuendo titoli e medaglie per sorteggio
era “prosperata” nella consapevolezza, come scrisse Goudeau, che dopo un ultimo
valzer sul vulcano parigino ed un prolungato martedì grasso avrebbe piegato il
capo precocemente calvo alle ceneri del mercoledì. Alle più giovani follie del
novecento sarebbe toccato di raccoglierne i sonagli da fool, abbandonati al
soffio austero della fredda necessità, rilanciando, guerre permettendo, l'eco
di cadenze stravaganti negli spasimi parossistici di proclami urlati.
Già nel 1916, il cineasta Emile Cohl, con il remake
del suo Peintre neo-impressioniste (1910) provvisoriamente titolato “Les
Tableaux futuristes et incohérents”, pretendeva di ricordare ad un pubblico
distratto i precedenti dell'eterno spirito giocoso e antiaccademico, salutando
i superstiti protagonisti in minore del secolo trascorso e consegnandone
il testimone ai contemporanei “futuristi”. Al XX secolo, da Duchamp e Picabia
in giù, toccò dunque di dar ragione al comico, assoluto o inquietante, di
Baudelaire, passando dal ghigno critico della caricatura, magari indirizzata a
Manet o Whistler, al sorriso connivente del conoscitore, in omaggio a quella
trasfigurazione del banale di cui discettò A. Danto.
Inserendosi in questa linea “spiritosa” diretta a
mostrare l'humour come struttura dell'universo, ovvero a descrivere,
jarryanamente, i fatti da un punto di vista superiore o laterale, Duchamp
debuttò sui periodici del tempo come disegnatore caricaturista, esponendo tra
l'altro al Salone degli umoristi (1909). A scoraggiare ogni “carnevale
d'estetismo” furono diretti anche i suoi ready-mades (né vanno trascurate,
nella sua “mentalistica” formazione, le
ricerche sulla quarta dimensione volgarizzate da Pawlowski). Vorrà pur dire
qualcosa il chiamare “The Blind Man” la rivistina d'arte destinata ad
accompagnare lo scandalo dell'orinatoio o dello scolabottiglie: la scelta del
ready-made valeva come reazione d'indifferenza visiva, fatto d'anestesia
completa, da cui però, poco per volta e inesorabilmente, l'humour evapora,
lasciando ai nostri contemporanei una successione di mosse mentali e griglie
interpretative. (Si pensi solo al destino della Gioconda donata da Duchamp ad
Aragon e da questi girata, infine, al segretario del partito comunista
Marchais: in questo tracciato tutto parrebbe seppellire “l'ilarità immortale,
incorreggibile” di baudelairiana memoria). Ricontestualizzazione cui neppure
dadaisti e compagni, dopo aver legittimato la presenza del riso nelle arti
plastiche, riuscirono a sottrarsi, almeno quando, associati al recinto
dell'Arte Degenerata (1937), i loro schiamazzi furono coperti dall'insulto
volgare o dal dileggio nazisti. Le loro battute, trovate o motti (pur se dada
solo a questo non è riducibile) insieme ad una superstite visibilità furono per
altre vie depurati, fino allo “spirito” e all'ascesi di Y. Klein la cui
sensibilità pittorica mirava al sublime come oltrepassamento della problematica
dell'arte. In queste allusioni al sublime lo stesso diffidente Duchamp finì per
notare un recupero di sensibilità date
per superate, oltraggio a quel laico, vitalistico e terreno spirito di Montmartre
(intendendo le attività di cabarets, riviste ed esibizioni) con cui tutto era
cominciato.
Come è vero che, spesso, la tragedia dell'arte
contemporanea ripetè le farse degli incoerenti.