Il seguente saggio è nient'altro che la prima ed esigua parte di un testo che mi era stato chiesto in vista di una mostra poi non realizzata. Lo scrissi in diversi momenti ma ogni volta di getto. La consapevolezza che la fatica era stata inutile la ebbi prima di terminarlo e di rivederlo sostanziosamente, controllando e incorporando, dove necessario, le fonti. Nel riprenderlo in mano avevo due alternative: o cercare di concluderlo o cercare di estrarne qualcosa. La prima alternativa era francamente scoraggiante, avendo il testo una struttura tale da richiedere delle conclusioni assai elaborate. Per comodità e pigrizia ho scelto la seconda, la quale se ha implicato uno sforzo minimo ha però lasciato in sospeso molte cose. Si tratta di una parte che ha un incedere bibliografico (ma non ho conservato tutto ciò che si trovava rammentato nell'originale) e può considerarsi un veloce commento alle opinioni di Stewart Home. Avevo già da un pezzo accantonato il tutto, quando usciva da Plon (Paris, 1999) Vie et Mort de Guy Debord di Christophe Bourseiller, una biografia che se non aggiungeva nulla alla parte "situazionista", aveva però il pregio di accrescere le notizie che già possedevo sull'infanzia e gli ultimi anni del suo protagonista. Se quello di Home su Debord fosse stato soprattutto un giudizio (o un pregiudizio) sulla sua personalità, fra le righe di questo libro, in specie riguardo agli ultimi anni, si potevano ciò nondimeno scovare alcune conferme.
Carlo Romano
situazionismi
Con la morte di Guy Debord, alla fine del 1994, l’Internazionale Situazionista -la quale sopravviveva per un verso nei discorsi di piccoli e stanchi, ma più che altro uggiosi, gruppi radicali e per l’altro nelle distratte, ma più che altro insicure, menzioni di pochi cronisti affaccendati nelle cose d’arte- otteneva un posto nell’opinione pubblica che mai aveva avuto. A quel punto, anche il posto nella storia, già blandamente assicurato, acquisiva lo spazio che compete agli eventi d’un qualche peso. Sotto l’ala protettrice di uno di quei tipici intellettuali che con la storia sembrano avere soltanto conti da regolare, e non hanno altro modo di farlo che rilasciando pareri, Philippe Sollers, usciva qualche tempo dopo da Gallimard un libro di Cécile Guibert il quale, intitolato a Debord, faceva scoprire una scrittrice che, forse tentata da un’improbabile vena sentimentale, invece d’una ragionata sequenza di appassionate cartoline riusciva a dare la più svenevole ed insincera collezione di necrologi a memoria d’uomo. Quantunque superfluo, si poteva tuttavia riscontrare nel libro la testimonianza della scarsa dimestichezza che l’intellighenzia francese aveva con le faccende relative ai situazionisti. Fra le poche eccezioni, spiccava quella di Regis Debray, autore di un saggio per nulla indulgente nei confronti di Debord ma perlomeno pertinente e non banale, riprova del fatto che nella sua recente veste di "mediologo" il vecchio guerrigliero poteva finalmente esprimere una riserva di finezza rimasta troppo a lungo surrogata nei servizi resi a Fidel Castro e a François Mitterand. Altrettanto non si poteva dire del pur diligente biografo di Georges Bataille, Michel Surya, mentre con un certo imbarazzo si assisteva ai capricci di un professore del gauchisme, Michael Lowy, per assegnare Debord al "romanticismo nero": "Debord è una macchina infernale difficile da disinnescare"... In fin dei conti c’era da rallegrarsi per il dossier che dopo il suicidio di Debord compariva su "les Inrockuptible", rivista di musica, moda e cultura giovanile, che, al pari di altre dello stesso genere, gravate dal peso della ricerca del nuovo, trovava da qualche tempo nei situazionisti, nati quattro decenni prima e da venti dissolti, un elemento di originalità.
Negli stessi paraggi, per la verità, già dai tempi della cosiddetta "punk explosion", nella seconda metà degli anni settanta, si era manifestato, tramite il manager dei Sex Pistols, Malcom McLaren, sedicente situazionista, un certo brusio tendente a conferire ai suoi istigatori il rango di più trasgressivi, di più dada, di più sulla cresta dell’onda e, in definitiva, di più furbi, chissà se altrimenti raggiungibile. E’ però alla fine degli anni ottanta, quando esce Tracce di Rossetto di Greil Marcus, giornalista musicale americano, autore di Mistery Train, un bel libro sulle origini del rock ‘n roll, che il brusio si addensa. Il libro aveva il merito di raccogliere per il grande pubblico quell’insieme di informazioni che la cultura ufficiale aveva largamente disatteso, ancorché lo stile un po’ "new journalism" alla Tom Wolfe e un po’ "storia segreta" alla Louis Pauwels (e più questa che l’altro) creasse l’involontaria comicità di chi scopre l’acqua calda. Quand’anche - con uno di quei ragionamenti snobistici e capziosi coi quali si pensa di salvaguardare chissà quale proprietà intellettuale - si abbia voglia di considerare questo testo fra i responsabili di uno sperpero dell’Internazionale Situazionista, esso resta comunque il lavoro di un’entusiasta la cui schiettezza nella scoperta, ovviamente, non costituiva in sé un difetto quale viceversa poteva esserlo l’enfasi esoterista di cui era pervaso.
Con maggior cura sono da vedere piuttosto i lavori di Stewart Home, in specie il suo Assalto alla Cultura del 1988. Propugnatore, con riserve, di un’ennesima ultima avanguardia, il "neoismo" (fondata da Zack, Ackerman e Kantor) essendo nato nel 1962 (mentre Marcus è del ‘45) Home è da ritenersi immune dal discorso dell’acqua calda, e sarebbe semmai da prendere in considerazione come esempio della più disinvolta ricezione delle cose situazioniste tra chi non aveva vent’anni nel 1968, o prima, e non ha patito dell’atteggiamento elitario (meglio ancora, inibitorio) che i situazionisti avevano nei confronti degli eventuali seguaci. Critico di Debord, Home rovescia la comune opinione dei gruppi radicali, punta sull’elemento artistico -che costituisce il primo dei due tronconi nei quali viene canonicamente divisa la storia dell'IS- e si appoggia poi strumentalmente proprio sulle obiezioni mosse da quei pochi elementi "linkscomunisti" (che dimostra almeno di conoscere) la cui attenzione nei confronti dei situazionisti è stata sì genuina ma anche di aperta condanna a cagione della loro "artisticità".
La divisione in fasi nella storia dell’IS, è ragionevolmente sorretta dal suo sviluppo come "organizzazione". Per Debord, fondamento di tale sviluppo sono "il superamento" e "la coerenza", la quale ultima, tuttavia, non riguarda solo le conclusioni ma investe direttamente le remote premesse. L’orientamento impresso all’Internazionale Situazionista negli anni sessanta è di certo interessante per i testi prodotti, principalmente quelli di Debord e Vaneigem, ma non lo è meno per il suo svolgere, perlappunto coerentemente, gli ambiziosi programmi delle avanguardie artistiche -fra l’altro, per quanto riguarda i testi, più ancora de La Società dello Spettacolo di Debord, è paradigmatico, a questo proposito, il Trattato di Saper Vivere di Vaneigem. La fase finale dell’IS, nel momento in cui si ponga il problema, riguarda la storiografia artistica allo stesso titolo della prima. In un certo senso, d’altronde, la vicenda dell’IS è più credibile in questa luce che come tentativo di riprendere la storia dell’Internazionale di Marx e Bakunin là dove si era interrotta. Contrapporre "artistico" e "radicale", o sostenere che l’artistico è il radicale come fa Home, significa alla fine assecondare la stessa interpretazione che i situazionisti hanno indotto a prendere per buona.
Nello sfoggio situazionista della nozione hegeliana di "superamento", tanto per prendere la questione di petto, si infittiscono litigi e sconfessioni come in uno psicodramma stalinista dove le morti, per fortuna, dolorose che siano, rimangono simboliche. Ciò nondimeno questi avvenimenti, nonostante l’apparente formalizzazione organizzativa dei situazionisti, sono estranei al dominio della "civiltà giuridica" e, per tanta crudeltà possano rivelare, essi sembrano più intrinseci alla fine di un’amicizia che ad altro. E’ questo che i situazionisti prendono terribilmente sul serio ed è, fra l’altro, in questo che la personalità di Debord esprime i suoi indubbi lati spiacevoli. Sono nient’altro che quest’ultimi, i quali pergiunta darebbero luogo a dei raggiri (non solo intellettuali), i fondamenti della critica di Home, la cui sensatezza, in ogni caso, è pari al partito preso. L’elaborazione situazionista nella sua fase finale, sarebbe in realtà ben poca cosa e, con lo stesso tipo di intransigenza che condanna in Debord, Home vi coglie solo miserabili fallimenti contrabbandati per teorie rigorose.
E' chiaro che, a dispetto delle pretese di Debord e compagni, punti risolutivi quali la nozione di "vita quotidiana" o la tradizione "consiliare" (vale a dire dei "consigli operai") hanno una loro storia che prescinde dai situazionisti, per quanto questi entrino a pieno titolo a farne parte. La stessa metafora debordiana dello "spettacolo" è del resto di origine popolare o, altrimenti, manieristico-barocca. A proposito, invece, del "superamento dell’arte", origini hegeliane a parte, viene da osservare che nell’anno in cui andava stampato il primo bollettino dell’IS, il 1958, usciva negli Stati Uniti la nuova edizione (la prima era del 1946, prefata da John Dewey) di un libro che si chiamava perlappunto The Way Beyond "Art" (in tedesco, lingua madre dell’autore, Ueberwindung der Kunst, il superamento dell’arte). Non è inoltre privo di comicità che dieci anni dopo, nel fatidico 1968, in Francia, i due più violenti pamphlet contro l’arte fossero scritti l’uno da un affermatissimo artista, Jean Dubuffet (Asphyxiante Culture) e l’altro da un "raffinato", come si suol dire, collezionista (nonché storico dell’arte gotica), Jean Gimpel (Contre l’Art et les Artistes). Biasimare delle pretese è dunque opportuno, ma il biasimo di Home prepara un altro genere di condanna: "idealismo"!
Volendo, la vicenda dell’IS nel modo in cui ci é stata tramandata, puo' rispondere a dei criteri definibili come "storicismo idealistico", o magari come "bergsonismo", non per questo è meno interessante. D’altra parte, vi si può anche scorgere una sorta di determinazione "work in progress" che fa pensare all’opera d’arte, ed ad un'opera d'arte il cui artefice pressoché unico sarebbe Guy Debord e tutti gli altri comparse o quasi. Armando Plebe, negli anni sessanta, attaccando la letteratura d’avanguardia, usò quest’espressione: "opera in progresso, lettori in fuga" dove per lettori, nel nostro caso, varrebbe la pena di intendere la caratteristica congerie di espulsioni. Le fonti bistrattate, gli artisti fuoriusciti, i fermenti "creativi" cui vanno, non senza motivo, le simpatie di Home, meritano senz'altro gli onori -che in gran parte hanno di fatto ricevuto nella storia dell’arte- ma non le geremiadi, tanto più rammentando che non sono la fragilità personale e la modestia dei propositi a rappresentarli tutti -se è vero che il famigerato Jorgen Nash, per il quale l’Internazionale di Debord e Vaneigem aveva coniato il dispregiativo "nashista", ha decapitato la statua della "sirenetta" anderseniana.
Quella dell’Is è fra l’altro una storia quasi privata, scarsamente vissuta all’esterno e, a differenza di quella del surrealismo e delle altre avanguardie -profondamente intrecciata, nel bene e nel male, con quella delle più autorevoli voci della cultura moderna- è rimasta, nonostante l’influsso esercitato su taluni eventi e gli obiettivi di scandalo che si prefiggeva, pressoché dietro le quinte e ignorata dall’opinione pubblica. Chi aveva mezzi e opportunità, ha potuto conquistarsi tranquillamente la fama artistica e su di essa non ha agito alcun favore o sfavore legato alla dissidenza nell’IS. I curriculum dei cataloghi delle mostre (e in misura assai minore anche le bandelle dei libri) potevano benissimo prescindere dal coinvolgimento coi situazionisti tanto non ne sarebbe derivato un superiore consenso. Paradossalmente i "cattivi", vale a dire Debord e compagni, confidavano invece nel rispetto che avrebbe suscitato il sapere della pur temporanea appartenenza al loro gruppo. Se ciò è avvenuto solo molto tardi, sostanzialmente a ridosso della morte di Debord e ancor più dopo, lo si deve al conformismo e alla superficialità degli storici dell’arte. L'unica eccezione è stata, a metà degli anni Settanta, Mirella Bandini con L'Estetico e il Politico, un libro che rimane ancora oggi indispensabile (in Francia, e ciò la dice lunga sulla sbadataggine del paese di Debord, è stato tradotto soltanto poco tempo fa). Fatto sta che, eluso per lungo tempo il significato delle vicende personali e di gruppo nella prospettiva dell’IS, la prospettiva della loro autonomia non sembra esser stata affrontata col dovuto vigore nei suoi contenuti intellettuali, interamente confiscati, nel migliore dei casi, da quelli artistici.
Un conto è però farsi interpreti del risentimento degli esclusi, un altro cercare di valutare l'attività e il potenziale di tutti, esclusi o meno. Cosa che, e qui conveniamo con Home, a molti infatuati di Debord -per i quali Co.Br.A., Spur, Bauhaus Situazionista, Sitationist Time, Istituto di Vandalismo Comparato sono solo episodi di un avvenire più grande che, quando va bene, si vuole di preferenza in debito soprattutto col lettrismo- riserverebbe non poche sorprese.