Carlo Luigi Lagomarsino
Hoppe Hoppe, cavallino
Hans-Hermann Hoppe è nato in Germania nel 1949, ha studiato con Jürgen
Habermas, si è addottorato a Francoforte, ha insegnato in varie Università del
suo paese, per qualche tempo è salito in cattedra pure a Bologna e vive da anni
negli Stati Uniti dove, sotto la guida di Murray N. Rothbard, dal quale ha
ereditato il posto alla University of Nevada,
ha approfondito la conoscenza del pensiero libertario americano, finendo
col diventarne un elemento di spicco. In Paleolibertarismo (Rubbettino,
€ 12) Piero Vernaglione ne ricostruisce l’originale vicenda intellettuale, che
tale è soprattutto pensando alla scarsa considerazione in cui il nuovo maestro
americano teneva le idee della sua formazione europea. Prima di morire nel
1995, Rothbard aveva peraltro impresso una svolta al proprio pensiero,
insistendo fra l’altro sul ruolo della morale, in special modo la cattolica, come legge
alternativa a quelle avanzate dai sistemi statali una volta che la libertà
economica avesse portato ai suoi naturali esiti anarchici. Diversi pensatori libertari
(free-market) condivisero la svolta. Persino chi, come Walter Block,
aveva sostenuto di “difendere l’indifendibile” – spacciatori, falsari, ruffiani
ecc. – intonava adesso il Mea culpa. Hoppe, in particolare, facendo in ogni
caso sua la distinzione fra libertarismo e libertinismo, si applicò su taluni
aspetti della svolta del maestro inerenti una nuova ipotesi “proprietaria” nei
confronti dello stato.
Per i libertari “un governo è un monopolista territoriale della
coercizione: un’agenzia che può impegnarsi in continue e istituzionalizzate
violazioni dei diritti di proprietà”. Saltare da un’enunciazione così priva di
sottintesi a sofisticate distinzioni fra sistemi di governo il cui apparato
“sia posseduto privatamente o pubblicamente” parrebbe inutile, dal momento che
in una frase ci si è espressi perfettamente. Se poi si ha la sensazione che
venga spezzata una lancia in favore del governo “posseduto privatamente”, cioè
della monarchia, l’inutile – dato il conclamato contesto libertario – sembra prendere
il sapore della provocazione. E qualora di essa Hans-Hermann Hoppe possedesse
il gusto, ancor più manifesto è nei suoi saggi lo scrupolo per il ragionare
geometricamente ordinato e dunque con la provocazione - se lo è - c’è da
attendersi pure l’ostinazione dei contenuti, come dimostra ampiamente Democrazia:
il dio che è fallito, pubblicato in italiano, per la traduzione di Alberto
Mingardi, da Liberilibri di Macerata (ama@liberilibri.it). Uno scrupolo e
un’ostinazione, tuttavia, che non dissolvono ovvie perplessità, innanzitutto
l’obiezione che viene spontanea è chiedersi cosa possa veramente cambiare nella
vita dei “i sudditi” una volta che sia riconosciuto il diritto di proprietà
sull’organismo statale.
Per cominciare, Hoppe sostiene all’incirca quel che sostengono i
monarchici, vale a dire che “un proprietario privato del governo” avrà comunque
l’interesse a limitare le proprie politiche di sfruttamento se vuole mantenere
la fonte dei suoi godimenti e valorizzare il patrimonio dello stato. Tuttavia, aggiunge
Hoppe, le restrizioni poste all’accesso nel gruppo dominante rafforza la
solidarietà fra i sudditi come potenziali vittime delle aggressioni statali,
per cui il rischio di perdere legittimazione è grande. Ma il punto è un altro.
La monarchia è per Hoppe il paradigma di una regressione che è arrivata a
compimento con la democrazia, quando il governo è una pubblica proprietà e
chiunque, in linea di principio, ne può entrare a far parte, indebolendo
attraverso questa illusione la resistenza al sopruso. La democrazia non è
dunque per Hoppe “il peggior sistema di governo ad eccezione di tutti gli
altri” come voleva Churchill, ma è proprio il peggiore, quello nel quale le
violazioni della libertà si sono dimostrate ingenti come mai nella storia sotto
forma di regolamentazione legislativa, espropriazioni, tasse e altro.
Il liberale di oggi, afferma Hoppe, se vuole essere coerente coi
liberali classici nel diritto di opporsi all’oppressione governativa, deve
sospingere questo diritto fino alla “secessione illimitata”, vale a dire
“all’illimitata proliferazione di territori liberi e indipendenti”. Anche in
questo caso Hoppe non manca di servirsi di termini e concetti che senza dubbio
vanno ad urtare la sensibilità delle anime belle, tanto da affermare che in una
società nella quale i diritti di proprietà siano compiutamente riconosciuti
dovrà necessariamente aumentare la discriminazione, ma è solo per dire
(e fa l’esempio degli “stili di vita controculturali”) che chi non accetta le
regole non può aspirare a esservi assimilato avendo la libertà di starne fuori.
Questi pochi ragguagli non restituiscono in ogni caso la robustezza del libro,
alla cui lettura si apre la mente, quand’anche una certa quantità di obiezioni
l’affollasse, su riflessioni nient’affatto infruttuose. Questo non vuol dire
che la sue tesi convincano.
“Licéntia”, n. 3, gennaio
2007