Di
seguito il testo introduttivo alla raccolta Young hoods in
love di Ho Che Anderson recentemente pubblicata
da Cut Up – Falsariga di La Spezia.
Ferruccio Giromini
the jazz ballads of Ho
Che Anderson
Considerando il colore della
sua pelle, piuttosto scuro, e inoltre che i suoi genitori hanno voluto
chiamarlo Ho come il condottiero vietnamita Ho Chi Minh e Che come l’eroe della
rivoluzione cubana Che Guevara, si può immaginare in quale clima politico sia
cresciuto questo singolare comic artist, nato nel 1969 nella London canadese.
Quella grande lingua di Ontario che si insinua e si stende tra i laghi Huron e
Erie, e che non dista poi tanto da Detroit, è una zona industrializzata, ad
alta concentrazione di popolazione e di cultura nera. Molto simile agli Stati
Uniti, presenta però differenze rilevanti nella vita quotidiana, un po’ più
rilassata, e nell’espressività artistica, che risente maggiormente di influenze
europee. E’ in questo ambiente che negli anni Ottanta Ho Che Anderson comincia
a pubblicare su diverse fanzine, per diventare famoso quel che basta nel 1990,
quando Gary Groth, occhiuto boss della Fantagraphics di Seattle, gli dà la possibilità
di pubblicare una serie originale per la sua etichetta Eros Comix: I Want To Be Your Dog. Tale fumetto
dichiaratamente erotico-sadomaso rivela al pubblico americano un autore
decisamente innovatore, di carattere, da seguire. E’ infatti ancora sotto
l’egida di Groth e della Fantagraphics che escono, nel 1993, la prima parte di King, una notevole biografia del
leader pacifista nero Martin Luther King (di cui sta finalmente per essere
pubblicata la conclusione), e Black
Dogs, che si basa su un confronto
di coppia, anche duro, tra un lui che sta per Malcolm X e una lei che tifa per
Martin Luther King. Un’altra opera dedicata al dibattito centrale della cultura
afroamericana: come affrontare le eterne ingiustizie riservate alla popolazione
nera?
Resta
illuminante una dichiarazione rilasciata a suo tempo da Anderson: “Quando mi chiesero se mi interessava
realizzare King, avevo
un bisogno disperato di lavorare e perciò accettai. Se in quel momento avessi
avuto più soldi a disposizione, probabilmente non avrei accettato, ma oggi sono
contento di averlo fatto. Ho finito per appassionarmi alla materia. In futuro
il mio lavoro continuerà su questa strada, che per me è l’unica da seguire. Per
tutto il resto della mia vita voglio continuare a raccontare storie, grandi e
piccole, di gente di colore”.
Ed è quanto Ho Che,
coerentemente, ha fatto: da Wise Son,
realizzato nel 1996 per la DC/Milestone, fino alle opere successive, tutte
curiosamente speziate da molte situazioni carnali, anche esplicite. Ci sono le
avventure di Temple Duncan,
statuaria belva nera del sesso, e c’è l’innovativa serie Pop Life, realizzata in coppia con
il disegnatore Wilfred Santiago. In tutte queste prove Anderson si dimostra
autore quanto mai irrequieto, spiazzante, in grado di cambiare stile di
continuo. Ciò avviene soprattutto nel disegno, che svaria volentieri da storia
a storia, in un continuo rimbalzo di omaggi tra esempi europei, da José Muñoz a
Dave McKean, e maestri del cosiddetto “rinascimento americano” degli anni
Ottanta: Howard Chaykin, Bill Sienkiewicz, Frank Miller, Kyle Baker. (Per
intendersi meglio sui termini, però, una volta per tutte bisognerebbe anche
sottolineare che tale rinascita della creatività del comic americano è stata
definita “rinascimento” con termine equivoco e decisamente infelice, specie se
si pensa che essa si è basata su stilemi estetici più che altro espressionisti.
E’ solo tenendo ben presente tale distinzione, dunque, che si potrebbe definire
adeguatamente Ho Che Anderson un artista “postrinascimentale” americano).
Gran parte delle referenze
visive incrociantisi in questo autore risultano manifeste in Young Hoods in Love, raccolta di episodi autoconclusivi usciti su varie
pubblicazioni americane tra il 1989 e il 1994. Il lettore italiano, che per la
prima volta ha la possibilità di accostarsi alla produzione andersoniana, qui
scoprirà un mondo complesso di personalità in perenne conflitto, con altri e
con se stesse. L’ambientazione urbana accentua una claustrofobia che spesso si
evidenzia già nelle dimensioni ridotte delle vignette e nell’accalcarsi in
pagina di dialoghi spessi. Ho Che è infatti un autore molto denso, che non
svicola di fronte ai problemi ma vi affonda dentro, con una sincerità di
accenti possibile solo a chi conosce bene ciò che racconta. E le storie di vita
quotidiana con protagonisti neri sono, quasi inevitabilmente, più malcontente e
depresse di quelle dei loro possibili omologhi wasp (che, ricordiamo, è l’acronimo di white anglosaxon person).
Ci si può anche dimenticare
il colore della pelle degli interpreti di queste storie, e tuttavia un leggero
senso di estraneità e di malessere permane, nel lettore, dinanzi alle loro
agitate traversie. Traversie sentimentali, il più delle volte, affrontate
dall’autore con un piglio sempre diretto, scevro da ipocrisie di sorta. Ma
soprattutto originale è la foga espressiva usata da Ho Che Anderson nel suo
lavoro di narratore. La vita, feroce o malinconica che sia, viene sempre presa
di petto, con una passione sottesa che è come fiato soffiato forte dentro un
sassofono, tra cadenze sincopate e inflessioni nevrotiche. Non è un caso che
molti referenti immediati di questi comics, alquanto e risolutamente
“indipendenti”, guardino alla musica jazz – e anzi proprio alla cultura jazz, intesa come evoluzione della
vecchia cultura blues in direzione bebop e poi hard bop e poi ancora free
(mentre i bianchi hanno deviato l'itinerario seguendo la variante beat, con le sue conseguenze).
I neri non hanno solo “il
ritmo nel sangue”, come si ripete per convenzione, ma proprio qualcos’altro, di
difficilmente definibile, che rende le loro vite più intense, in qualche modo
più “gridate”. Chi ha letto le incredibili autobiografie di musicisti come
Charles Mingus o Miles Davis capisce meglio l’espressività nera, dalla quale la
vita quotidiana non si riesce a dissociare. E quell’intreccio indissolubile di
emotività affrontate con disperata risolutezza e di razionalismi acuti ma
dirompenti come passioni è davvero, come altro definirlo?, definitivamente jazz. Jazz vissuto. Così come jazz
scritto e disegnato sono le storie, ora una breve ballad e ora una suite
più articolata, che compone tormentoso Ho Che.
Per contatti con l’editore: falsa_riga@yahoo.it