le voci che corrono
the hateful eight
THE HATEFUL EIGHT
(USA, 2015)
regia, soggetto, sceneggiatura: Quentin
Tarantino – Fotografia: Roberto Richardson – Scenografia: Yohei
Taneda – Costumi: Courtney Hoffman – Musica: Ennio
Morricone – Montaggio: Fred Raskin. Interpreti e
personaggi: Samuel L. Jackson (magg. Marquis Warren),
Kurt Russell (John Ruth), Jennifer Jason Leigh (Daisy Domergue),
Walton Goggins (Chris Mannix), Demian Bichir (Bob), Tim Roth (Oswaldo Mobray), Michael Madsen (Joe Gage), Bruce Dern (gen. Sanford Smithers), James Parks (O.B. Jackson), Channing Tatum (Jody Domergue).
Aldo Viganò “Film
Doc” (www.filmdoc.it/)
Per avere una pur pallida idea dell’uso
del cinema che Quentin Tarantino fa nella splendida profondità di campo di The Hateful
Eight (il
film è stato girato a 70mm), conviene riportarsi alla memoria il prologo di Bastardi senza gloria o anche la scena di Django
Unchained in
cui Di Caprio uccide Christopher Waltz, mescolando
magari il tutto con le sequenze della tortura nella cantina di Pulp Fiction o con quella della sparatoria finale diLe iene, ma anche con la chiacchierata iniziale
tra i protagonisti di Jackie Brown.
Un cinema dai dialoghi difficilmente
dimenticabili: carichi di tensione e messi in scena con un ritmo lento
che minaccia sempre di esplodere nella violenza. Un cinema fatto di sequenze
apparentemente teatrali, ma sempre caratterizzate dal predominio dello
sguardo e da un uso molto fisico della parola, che non può fare a meno di
aprire la via a spargimenti di sangue e a improvvisi colpi di arma da fuoco.
In questo senso, The Hateful
Eight è
proprio la summa di tutto il cinema secondo Tarantino. Apparentemente lento e
prigioniero di uno spazio chiuso, il film si snoda per sequenze sempre cariche
di tensione in cui tutto può accadere, sta per accadere e quando finalmente
accade non è mai ovvio o scontato. Scandito in sei capitoli, The Hateful
Eight racconta
una storia che si svolge nelle vallate innevate del Wyoming,
ma che poi predilige gli spazi claustrofobici dell’interno di una diligenza
simile a quella diOmbre rosse o dello sperduto emporio di
Minnie, dove sette uomini e una donna si trovano a fare i conti, costretti
dalla bufera che infuria di fuori, con uno spietato gioco a eliminazione, nel
corso del quale tutti mentono e nessuno rivela mai completamente quello
che è o che cosa sta per fare.
È in questo contesto che Tarantino
costruisce – senza fretta, ma anche senza momenti di noia, in oltre tre
ore – un film fatto di “scene madri”, anche non necessariamente cucite tra loro
da una sceneggiatura che non si preoccupa tanto di essere “bien
faite” nel senso letterario del termine, pur facendo
un uso molto sapiente dei suoi tiranti narrativi: con in primo piano, la
funzione che nel racconto svolge quella lettera firmata Abraham Lincoln che
l’ex-nordista e ora spietato cacciatore di taglie Samuel Jackson ogni tanto
tira fuori di tasca e che a turno altri (Kurt Russell e Walton
Goggins) leggono con un misto di ammirazione e di
incredulità. Sono questi, quelli della lettera (vera o falsa che sia), alcuni
dei pochi momenti di pausa di un film che procede interamente secondo i ritmi
fisici ed emotivi dettati dalle parole che pronunciano quei personaggi sempre
ambigui, interessanti e complessi.
Come accade in Amleto alla fine lo spazio scenico sarà
cosparso di cadaveri, immersi nel proprio sangue come i protagonisti di Le iene o di Pulp Fiction. Ma nella
visione insieme tragica e “pulp” della vita, che caratterizza il nuovo film di
Tarantino, non c’è più spazio né per frasi lapidarie (“Il resto è silenzio”,
conclude Amleto), né per l’efficienza ordinatrice di un qualsiasi Mr. Wolf (Harvey Keitel, in Pulp
Fiction): il vero interesse del regista, giunto con questo al suo ottavo
film, tende ormai direttamente verso il cinema puro.
Un cinema che – anche nei suoi
significati più esplicitamente politici e sociali (il mito americano che si
autodistrugge, il latente razzismo di una società fondata sul denaro, ecc.) –
si costruisce interamente sullo schermo attraverso un sempre più elaborato uso
delle inquadrature che si intrecciano “necessariamente” con splendidi dialoghi
messi in bocca ad attori molto ben diretti; ma anche con l’esplosione
improvvisa di atti di violenza, la ricerca di una impossibile via di salvezza
(la parallela ricerca di un arma liberatoria da parte di Jackson immobilizzato
a letto e di Jennifer Jason Leigh ammanettata al cadavere di Kurt Russell), la
sapiente direzione degli interpreti (l’inglese Tim Roth, il laconico
cowboy Michael Madsen, il messicano Demian Bichir), che fanno da
contorno a quella che mi sembra essere la sequenza più memorabile di un film
fatto tutto di memorabili sequenze. Quella con il “nero” Samuel L. Jackson (il
cui personaggio si chiama Marquis Warren, come il
regista western degli anni Cinquanta), in impeccabile divisa nordista, che
provoca con implacabile determinazione il vecchio (ma non innocente)
confederato razzista, Bruce Dern, disposto a tutto
pur di alimentare il suo inestinguibile odio per la società nata dalla guerra
civile, ma non capace di ascoltare i particolari di quella che potrebbe essere
stata la vera morte di suo figlio, nel cui ricordo egli ha riposto il proprio
ultimo residuo di umanità. E, come quasi tutte le altre sequenze di The Hateful
Eight, la scena si chiude con un preciso colpo
di pistola: ultimo mitico residuo di un film western che ha perso ormai il
fascino della leggenda, ma che rivendica ancora un legittimo posto nel pantheon
del cinema.
Goffredo Fofi, “Internazionale”
(http://www.internazionale.it/) - La barbarie inutile di The hateful eight
C’è chi si diverte da matti a vedere tre ore di uno splatter cupo e
mortuario girato con inutile maestria da un citazionista
accanito che gode a mostrare sangue e vomito e agonie e a ricordarci
sghignazzando che tutto è urlo e furore, l’Uomo e la Storia, e c’è anche chi,
come me che qui scrivo, si annoia e sbadiglia.
Certo, si ammira l’abilità tecnica, e si pensa che, ahinoi, qualcosa di
vero c’è nella visione del mondo che hanno i tarantini e i tarantinati,
ma non si può fare a meno di compiangerli, pronti come sono ad applaudire i
massacri e forse anche a massacrare, ma non ancora a farsi massacrare come è
probabile che possa invece capitare anche a loro, dato lo stato del mondo e
delle cose.
Tarantino e i suoi fan sono, insomma, la spia di qualcosa che va oltre il
cinema, e su cui si ragiona troppo poco. Ma per fortuna, ci si dice subito
dopo, sono solo canzonette, una cosa di rapida digestione e di rapida
dimenticanza, dato che, come dice un personaggio del film, la madre dei
bastardi (ma io ho molto rispetto per i bastardi, sale della terra) è sempre
incinta. Anche la madre dei nazisti, diceva un tal Brecht, molti anni fa.
The hateful eight è un film che ne
evoca altri, senza però avere né la spavalda allegria dei Corbucci
e dei Fulci, e rifuggendo dai silenzi ieratici dei Leone. Anzi, qui la
chiacchiera domina, e ha detto bene chi ha citato Agatha Christie per
l’interminabile atto unico che copre il film, teatro naturalistico e tremendista che ha tutta una storia anche americana e si
chiamava un tempo grand guignol.
Tutto si riduce al whodunit hitchcockiano: chi è l’assassino tra gli abominevoli
protagonisti maschili, fatti fuori uno via l’altro? E sì che il richiamo della
foresta londoniano – la dura lex
della lotta per la sopravvivenza – ha avuto molto da insegnarci, anche nella
letteratura statunitense e nel cinema statunitense (e consiglio a chi non
l’abbia mai visto di cercare un dvd di Notte senza legge di
André De Toth, 1959, per ritornare alle origini di
quella visione western del mondo e all’amara necessità di doversi confrontare
con la violenza).
Quelle opere avevano e hanno ancora oggi, nella nuova barbarie della postmodernità, di che istruirci oltre che divertirci, nella
produzione culturale alta come nella bassa.
Ma non è dalle parti di Tarantino e dei tarantinati
che s’impara qualcosa, compiaciuti come sono dell’umano orrore e dell’umana
stupidità, pronti a intervenire attivamente nella collaborazione al disastro, i
pochi, e ammaestrati a subirlo i tanti, i più.