È  qui proposto il primo capitolo (e la  prima frase del secondo, per esser corretti) di The Pulple Jungle (Sherbourne Press, Inc., Los Angeles 1967). Si tratta dell' l’autobiografia letteraria di Frank Gruber (1904, Elmer, Minnesota - 1969, Santa Monica, California) scrittore legato alla stagione dei “pulp”, per i quali scrisse oltre 300 storie. Gruber fu autore anche di una sessantina di romanzi e di innumerevoli sceneggiature per il cinema e la televisione.

Frank Gruber

la giungla dei pulp

Verso la fine del 1960 ricevetti una telefonata da un professore della University of California di Los Angeles. Stavano facendo un’esposizione particolare di numeri di Black Mask e di materiali su scrittori che avevano collaborato alla rivista, e il professore chiedeva se ero io quel Frank Gruber che vi aveva collaborato durante gli anni trenta.

Dire che restai scosso sarebbe voler minimizzare la cosa. Io, una reliquia dell’epoca dinosaurica della narrativa pulp in un’esposizione?

Ma il calendario é una faccenda brutale, e, nel 1960, erano già passati venti anni da quando avevo scritto il mio ultimo racconto per Black Mask. E ora che ne son passati ventisette, sono in certo qual modo sintonizzato col fatto di essere una vecchia tartaruga che è sopravvissuta chissà come ai suoi tempi e, in questi ultimi sei o sette anni, di aver visto tanti, tanti racconti del periodo di Black Mask ristampati e di aver visto e sentito molti critici e studiosi di letteratura seria levare in alto le virtù e la vitalità di quei praticanti della prosa sparsa degli anni trenta.

Uno scrittore è raramente una persona modesta –se lo fosse non sarebbe uno scrittore - e, dal momento che sono vissuto ed ho esercitato il mio mestiere in quegli anni, spero che il lettore sopporterà l’uso continuo che faccio del pronome “io”, non potendolo evitare in qualità di testimone di quei tempi e di quella letteratura.

Lungo il sentiero della vita  di ciascuno vi sono pietre miliari, e vi furono tempi, nella mia carriera, nei quali accaddero cose memorabili - memorabili. per me, s’intende, ma, essendo uno scrittore, non posso mettere semplicemente un personaggio sulla strada a 0porre pietre miliari qui e là. Devo dare al personaggio una certa sostanza. Devo dargli certi precedenti. Devo scrutare la sua mente. Devo dargli una certa profondità e devo dire come ha fatto a trovarsi su quella strada. Devo renderlo vivo.

Così, per cominciare, c’è solo un punto - dall’inizio.

Il primo libro lo lessi a nove anni. Era un paperback, Luke Walton, the Chicago Newsboy di Horatio Alger Jr.

Il libro mi fece una prof onda impressione, perchè anch’io vivevo a Chicago e anch’io, a nove anni, vendevo giornali!

Durante gli anni che seguirono lessi un centinaio di libri di Alger. Qualcuno me lo facevo prestare, qualcuno lo rubavo, qualcuno lo prendevo alla biblioteca pubblica di Chicago ed alcuni me li regalavano per il compleanno o a Natale, mentre altri li compravo nelle edizioni Donahue al costo di 10 cents.

I libri di Alger ebbero su si me un’influenza superiore a qualunque altra nella mia vita. Risolsero il problema del mio futuro. Mi istillarono un’ambizione che continuo ad avere dall’età di nove o dieci anni. Non mi sono mai discostato da questa ambizione. In sostanza, tutti i libri di Horatio Alger Jr. hanno lo stesso tema - raccontano come ragazzi poveri diventino ricchi. Il tema ha ispirato tre generazioni di Americani.

Ahimé! La lettura dei libri di Alger non mi istillò l’ambizione di diventare un ricco uomo d’affari. No, quei libri mi ispira­rono il proposito di diventare uno scrittore, di scrivere libri come quelli di Horatio Alger Jr. E io scrivevo ancora prima di compiere undici anni. A quell’età avevo terminato un libro. Era scritto a matita su carta da pacchi convenientemente ridotta.

Naturalmente abbandonai i libri di Alger, ma non abbandonai il desiderio di diventare uno scrittore. Nel frattempo dovevo vivere e così, all’età di tredici o quattordici anni smisi di scribacchiare. Col passare degli  anni la fiamma dell’ambizione ardeva fiocamente e talvolta divenne un pallido bagliore, ma non si spense mai del tutto, irrobustendosi piuttosto negli anni seguenti. Allora ero diventato un giovane intellettuale e quando ricominciai a scrivere leggevo Letteratura con maiuscola.

Scrivevo racconti proponendoli a riviste qualile vecchie Smart set, Atlantic Monthly e Scribner’s Magazine.

Furono tutti respinti. Pensai dunque di abbassare le pretese e tentare con riviste più popolari: The Saturday evening post, Collier’se roba simile.

Non ne volevano sapere di me e mi trovai all’età di ventidue anni, con l’ambizione di scrivere più ardente che mai, senza sapere tuttavia a chi rivolgermi. Le riviste pulp conoscevano la loro prima fioritura ed io cominciai a leggerle. Scrissi alcuni racconti e li spedii. Vivevo ancora a Chicago, ma, fino ad allora, non avevo incontrato un editore in carne ed ossa, né avrei ricosciuto un autore incontrandolo per strada!

A quei tempi venivano ancora pubblicate a Chicago alcune riviste ed io decisi di recarmi di persona da un editore. La rivista era Real Detective e l’editore, un certo Edwin Baird, diceva meraviglie dei suoi autori sulla copertina. “Scopriva” sempre nuovi scrittori e dava loro il benvenuto sulle pagine della rivista.

Uno dei giorni in cui solitamente lavoravo mi recai da Mr. Baird. Entrai sì nel suo ufficio, ma mi fece stare in piedi, concedendomi solo trenta secondi del suo tempo prezioso. Gli consegnai un manoscritto.

Bisogna dire che me lo rimandò con una nota personale, invece del solito foglietto di ritorno La sostanza della nota era “Scordatelo”.

Ma non ero disposto a scordare e, un sabato, me ne andai al McClurgs Book Store e incappai in un libro dal titolo 1001 Places to Sell Manuscrits (1001 posti per vendere manoscritti). Trovai anche una rivista dal titolo Writer’s Digest.

Questi due stampati mi aprirono un nuovo mondo. Scoprii che esistevano centinaia e centinaia  di pubblicazioni che non finivano in edicola, che stampavano racconti e li pagavano.

Settimane di studio mi decisero a tentare la forma più bassa di narrativa - almeno, così mi parve allora. Esistevano circa un centinaio di pubblicazioni” “Sunday School” (scuole domenicali in genere gestite dalle parrocchie) che pagavano da un decimo di cent fino a mezzo cent per parola. In 1001 Places to Sell Manuscripts era indicato che si potevano chiedere copie omaggio di queste pubblicazioni!

Comprai un centinaio di cartoline postali e scrissi con improntitudine ad ogni pubblicazione elencata.

Con mia grande sorpresa, quasi tutte le case editrici mi inviarono una copia in omaggio!

Le lessi a fondo e per sei mesi scrissi racconti “Sunday School” spedendoli ai giornali parrocchiali, ma tornavano indietro con monotona regolarità. Fu un periodo angoscioso. Avevo ventitré anni, avevo letto Martin Eden di London, e il pensarci era quasi l’uni ca cosa che mi facesse tiurare avanti. Anche per London c’erano stati periodi difficili. Ma lui non si era abbassato a scrivere racconti “Sunday School”. Se non ero in grado di vendere neppure quelli, che speranze mi restavano? Continuai a spedire racconti.

Arrivai al punto di ribatterne a macchina qualcuno che era diventato troppo stazzonato dal gran viaggiare con la posta degli Stati Uniti. Io li spedivo, li toglievo dalle buste di ritorno, e li rispedivo. Era diventata routine. E un giorno aprii una busta. Era piuttosto sottile, ma avevo spedito sia racconti sottili che corpulenti. Tuttavia questa busta non conteneva un foglietto di ritorno. C’era una lettera ed un assegno di tre dollari e cinquanta cents. La United Brethren Publishing House di Dayton, Ohio, aveva accettato il mio racconto The Two Dollar Raise. Ce l’avevo fatta.

 

Ero un autore. Era il 27 Febbraio 1927.