Sonia S. Braga
Gross
underground
Alex Gross: THE UNTOLD SIXTIES: WHEN HOPE WAS BORN, Cross-Cultural Research
Projects, 2009
Who’s
who? Un quesito da rotocalco patinato che torna d’attualità facendo il nome di
Alex Gross.
Solo
qualche mese fa lo rivediamo con Ed Sanders, Claudia Dreifus, Steven Heller,
Peter Leggieri, Dan Rattiner e John McMillian, fra gli animatori della mostra
“Blowing Minds: The East Village Other, the Rise of Underground Comix and the
Alternative Press, 1965-1972” (A. L. Carter Journalism Institute, NYU, 9
febbraio - 16 marzo 2012).
The Untold Sixties
è il primo libro del vivace cronista poliglotta che fu tra le voci
dell’underground degli anni Sessanta, collaboratore vagabondo di fogli “sparsi”
fra almeno due continenti. Passato con disinvoltura dalla Londra effervescente
della spettacolarità urbana dei rock clubs di Soho, alla Berlino della Comune,
breve toccata e fuga ad Amsterdam, Gross ritorna a New York solo nel 1968, per
approdare alla redazione dell“East Village Other”, storico underground paper con base nella resiliente metropoli. Fucina
gutenberghiana della creatività alternativa, dal fumetto alla letteratura,
dalla musica ai layout sgrammaticati della grafica psichedelica (intervallata
da frizzanti cut-up), secondo solo al
“pacifico” Los Angeles Free Press, l’EVO raccolse le speranze di un’intera
generazione “lisergica” unita nel nome di una cultura libertaria orientata al
pacifismo. Con The Untold Sixties, Gross ripercorre i
fermenti degli anni Sessanta alla luce della sua lunga esperienza
giornalistica, in un percorso ben lontano dall’essere una piatta narrazione
storica (risulterebbe assolutamente parziale), quanto, piuttosto, un racconto
comparativo di esperienze vissute, descritte e viste sempre in prima persona,
in giro per il mondo (in buona compagnia) ma comunque sottotraccia. Il limite
più evidente del libro è forse anche il suo miglior pregio, ovvero l’essere al
di sopra delle storie (e delle parti), affrontando con spregiudicatezza e
piglio cronachistico, eventi curiosi e marginali, secondo un approccio
culturologico al limite della (contro)storia del costume. Lasciamo alle parole
dell’autore i moventi di una simile scelta (e gli ovvi quanto ineludibili
ricorsi degli storici nei quali va a cadere): consapevole del rischio insito
nell’operazione, Gross mette in guardia i lettori circa il suo approccio, che
“forse può sembrare presuntuoso, ma anche per questo c’è una ragione. E risiede
nel fatto che una certa arroganza intellettuale fu parte integrante dei
Sessanta e il mio resoconto sarebbe meno fedele al clima dell’epoca se non
avessi cercato di descriverne le tensioni ideologiche. A titolo di difesa,
siamo stati forse noi ad essere meno arroganti di coloro i quali erano
schierati contro le nostre idee. (…) Attraversavamo tutta una serie di parole
per descrivere chi eravamo davvero e cosa stavamo facendo: ‘contro-cultura’,
‘cultura-giovanile’, ‘underground’, ‘new left’, ‘the scene’, ‘movimento’,
‘movimento giovanile’, e anche ‘rivoluzione’. Personalmente non mi curo di
tutti questi termini, e, anche se alcuni di essi con il passare del tempo sono
divenuti clichés, non importa. Le idee sono altro. Forse un’idea non potrà mai
diventare un cliché – se si tratta di un’idea vera e propria persiste, resta
valida come mai lo è stata, le parole la esemplificano o forse ne spiegano la
nostra modalità di comprensione umana”.
L’allestimento
di “Blowing Minds”, al quale abbiamo già accennato, ha rappresentato il
contesto perfetto per riportare all’attenzione, seppure per inciso, il
voluminoso testo di Gross - per l’occasione invitato a partecipare alla tavola
rotonda sulla stampa underground statunitense - e di comprenderne le matrici
culturali. A tale proposito, un divertito frammento di cronaca inserito nel
racconto della “trasferta berlinese”, rende intelligibile lo spirito che ha
mosso il suo autore. Si tratta di un singolare dialogo intercorso fra il giovane
reporter (“countercultural agent”,
come egli stesso amava definirsi) e un tale Herr Brand (sedicente professore di
filosofia: la CIA?) critico nei confronti dei recenti sommovimenti giovanili in
giro per l’Europa, le cui invettive sono prima neutralizzate da Gross con un
italianissimo, puntuale, “quant’è bella giovinezza…” e quindi ribaltate con una
candida, illuminante sentenza: “ho creduto che la cultura giovanile fosse un
fenomeno profondamente umanistico, una perfetta continuazione dell’originale umanesimo
fiorentino”.
La
rassegna, a quarant’anni dal termine delle pubblicazioni dell’“East Village
Other”, ne ricorda l’avventurosa storia attraverso materiale documentario,
fotografie, poster, i caustici comics di Robert Crumb e copie originali dell’EVO.
Da non dimenticare, poi, la vicenda “untold”
(riportata dal nostro autore) del collettivo di artisti, critici, registi,
letterati e operatori culturali dell’Art Workers’ Coalition, cha data 1969. Il
gruppo, al quale hanno personalità di spicco della scena artistica americana
(tra i più noti esponenti della corrente Minimal, della Process Art e del
Concettuale), è stato sostenuto, oltre che dagli interventi e dagli sforzi di
un critico attento come Lucy Lippard, anche e soprattutto dalle colonne della stampa
underground, che ne pubblicò le rivendicazioni e i “demands”. Lo stesso Gross
ne fece parte, seguendo con passione gli artisti nel loro tentativo di
smarcarsi dalle dinamiche sempre più oppressive e mercantilistiche del “sistema
arte”, di fatto gestito dai boards of
trustees delle più importanti istituzioni museali. Proprio questa “libertà
di carta”, libertà del comunicare, è l’aspetto più sottile e intrigante che
emerge dalla tessitura del testo: la “vera rivoluzione d’America” fu (anche)
quella degli strumenti di comunicazione utilizzati per il puro diletto del
libero scambio di idee e di informazioni.
P.S.!
Alex Gross si dichiara inaspettatamente un fanatico del five and dime con il suo “compri 3 paghi 1” nella fulminante
sinossi posta in apertura del tomo: “Tre libri in uno! Una Spy Story.
Un’avventuroso viaggio nel tempo. Un racconto responsabile di un periodo
storico degno di nota”. Un’indicazione di lettura che dimostra come l’ironia,
merce sempre più rara sugli scaffali delle librerie, sia il primo nume di
questo inimitabile storyteller.