Massimo Bacigalupo
Elio Grasso, la poesia si fa
racconto
Elio Grasso, genovese, scrive e
pubblica da decenni, poesia, traduzioni, recensioni, sempre di alta qualità,
sempre appartato. Titoli come L’angelo
delle distanze (1980), E giorno si
ostina (2012), Varco di respiro
(2013). Siamo in un’area internazionale di poesia meditativa, assorta (ha anche
curato una scelta dallo Zibaldone: e
una traduzione dei Quartets di Eliot).
Ma soprattutto forse conta l’imprinting ligure: luoghi, spazi, aria, toponimi.
Genova intravista, ricordata, fiutata.
Un’occasione di avvicinare
Grasso anche per coloro che scansano i poemi è ora offerta da un suo breve
romanzo, Il cibo dei venti (effigie,
pp. 92, €15,00), che con una calligrafia japonisant di Franco Beltrametti in copertina,
un formato allungato insolito e grandi caratteri chiari per i brevi paragrafi
alletta e intriga il lettore. E’ un’opera di narrativa poetica, sul risvolto non per nulla è fatto il nome di
Biamonti. Siamo dentro una coscienza in un paesaggio che diviene scrittura.
A parlare un prima persona è un
omonimo di Grasso, un Elio, che vive solo in collina, ha una relazione con una
donna meridionale, Mita, e passa volentieri qualche ora all’osteria del paese
sopra un bicchiere di vino parlando col giovane prete poco confessionale che
poi lo aiuterà nella ricerca di una parente persa di vista da sempre. I ricordi
dell’infanzia, racconti di guerra, del fascismo, si intrecciano alle
annotazioni sullo scorrere dei giorni, sulle cure dell’orto.
“Ho voluto crescere su questi appigli. // Le
fasce degli ulivi tengono il mondo, non giocano con i bambini o i cani, non
fanno lega alla cieca... // A volte dondolo, come oggi, a furia di vento. E mi
sento esatto come le flessioni dei rami d’ulivo... Con questo tempo il polpo
viene fuori dagli scogli, i ragazzi gli girano la testa, pronti all’agguato.
Attenti al gioco, dimentichi della crudeltà”.
Sono squarci sempre nitidi e
acuti che permettono di leggere Il cibo
del vento ad apertura di libro. Ma vale la pena di seguire le brevi e
pungenti riflessioni del narratore che osserva la donna che si avvicina e si
allontana, il tutto come osserva le nuvole muoversi: “Vedo la nuvolaglia bassa
spartirsi il giallo e il viola, risvolto del mare che da qui sembra quieto”.
“Mita lavora in alcune case di Rapallo,
tiene sotto controllo lo sporco di qualche famiglia borghese, di mariti stretti
nelle braccia di donne inacerbite. Non me ne parla. // So poco delle sue
stanchezze sul campo. La sua vita è per tre quarti un segreto tenuto nel pugno
di due. // Io con un mestiere che tocca, che sfiora, poi lascia al tempo tutto
il resto. Lei con mani che tolgono, lisciano, riparano la lucentezza di mobili
e suppellettile. // Cosa siamo è tutto qui. Una strada che viene dal mare e che
non si allontana troppo. Restiamo, bene in vista dello scirocco, del maestrale,
e dell’orizzonte che ha un filo mobile”.
Così Grasso dice questo mondo
che gli sta intorno, intonandolo a una narrazione minimale che ci permette di
seguirlo e gustarne la capacità evocativa, di riconoscerci nel testo. Ci sono
altri personaggi, come Bechir, l’amico marocchino: “L’hanno preso di notte,
l’hanno ucciso con un taglio preciso alla gola. Ho sentito soltanto qualche
fruscio, niente di cui preoccuparsi in una notte d’agosto. Ma il giorno
seguente ho dovuto rispondere alle domande di un poliziotto. // Ho annusato il
kif posato sul fondo della sacca. // Un
fumo preparato che non gli avevo mai visto usare. E chi ha ucciso Bechir
non cercava quello. Non so cosa, non lo saprei dire nemmeno ora, dopo tre
anni... Tre giorni passati insieme, olezzo di sudore e profumo di tè nel
bicchiere. Ragazzo cresciuto lungo le strade, con l’intervallo del mare. Forse
già sposato”.
Grasso è alieno ai poeticismi e
agli entusiasmi panici, sente e scrive con lucidità e senza retorica, e così ci
consente di vedere nitidamente ciò che racconta. Non cerca né trova conforto
nel rigoglio della natura anche se nomina piatti e gusti locali con passione
rattenuta. Un suo antesignano (suo o del narratore) potrebbe essere il
Gerontion di Eliot: “Eccomi qui, un vecchio in un mese secco, / con un ragazzo
che mi legge, / aspettando la pioggia...”.
Una rivelazione verso la fine
del racconto è un acquazzone che sparge sulla collina dei pesci ancora vivi che
la tromba d’aria ha succhiato dal mare: “Alcune virgole carnose rimbalzano sul
terriccio umido e acido, mandano barbagli verso i rami degli ulivi... In questo
sciame vedo gli umori del mondo, le notizie che molti perdono. // Il tremito è
dappertutto. // Resto dentro quest’altra parte, mi devo tenere”. Il passaggio
dall’oggetto al meta-oggetto avviene naturalmente, ed è appunto eliotiano.
Ma Il cibo del vento è frutto di una visione originale che sa
procedere con fermezza e coraggio senza assumere atteggiamenti di sfida. Grasso
pacatamente disegna la sua pittura di figure in un paesaggio. E’ un quadro
immobile, ma la declinazione narrativa vi imprime il necessario impulso e rende
la lettura una passeggiata tranquilla ma piena di sorprese a ogni svolta.
“il manifesto – alias”, 28
settembre 2014