Carlo Romano
Grand Tour e minestrone
La tentazione di combinare la lettura de Il viaggio in Italia
che Attilio Brilli, grande esperto della letteratura di viaggio ma anche di
satira e caricatura, ha pubblicato da Il Mulino con il volume, di più modesta mole,
che Remo Bodei, presso lo stesso editore, ha dedicato al “déja vu” (Piramidi
del tempo), potrebbe avere un senso pur nella consapevolezza che questa
conturbante sensazione non è solamente “paesistica”. Sennonché il ricco volume
di Brilli si appoggia su basi differenti, e più complesse, delle solite
rassegne di impressioni. Certamente l’autore non prescinde da ciò che allettava
l’antiquario o il diplomatico, il letterato o il naturalista, ma anziché trarne
una sequela citatoria di vedute, palazzi e macchiette se ne serve per
ricostruire cos’era nel concreto il “viaggio in Italia”, quali fossero nel
tempo le sue modalità. Sono i mezzi di trasporto, gli itinerari, i corredi dei
viaggiatori, ciò che li aspettava in Italia nei vari gradi di ospitalità e rischio
a costituire il nerbo del volume.
Pensare a ciò come alla pura descrizione di un substrato tecnico che ha
sì il suo peso sulla condotta, ma lo limita agli aspetti materiali
dell’esperienza sarebbe tuttavia grossolano. Quando si leggono brani dei racconti
di viaggio si tende ciò nondimeno a immaginare il carattere sostanzialmente
solitario dell’osservazione. Non si riflette mai abbastanza sul fatto che ogni
sosta del più o meno illustre esploratore era magari anche quella di un nugolo
di servitori, e ciò ha indubbiamente la sua importanza. Al corredo “tecnico”
non mancavano d’altra parte nemmeno le
“guide” e dunque la propria esplorazione teneva conto di quella di chi già ne
aveva fatto tesoro. Goethe, è noto, tenne quale indispensabile fonte il volume
sull’Italia di Johann Jacob Volkmann, che a sua volta si rifaceva a quello del
francese Lalande.
Insieme alla luce di una civiltà unica, ci si ricorda pure che l’Italia
è stata la sede privilegiata dei luttuosi romanzi “gotici”, cosa che l’associa
a fosche vicende i cui brividi sono reiterabili nella minaccia dei “briganti”.
In un’Italia “nera”, nella quale la decadenza civile dai tempi del Rinascimento
sembra esser pari a quella del delitto, incappa fortunosamente Robert Browning
su una bancarella fiorentina, dove raccoglie gli atti di un triplice omicidio (la moglie e i suoceri
dell’assassino) avvenuto due secoli prima. Il poeta propone prima a Tennyson e
poi a Trollope di ricavarne un romanzo, ma gli scrittori lasciano cadere
l’offerta. Sarà lui stesso a utilizzare la vicenda attraverso un ponderoso
poema, The ring and the book, che più tardi – agli inizi del XX secolo –
servirà di stimolo a un buon poligrafo per riflettere sul paese che descrive,
seguendo puntigliosamente le tracce della vecchia cronaca col nuovo messo in
relazione ai luoghi dove si svolsero i fatti.
Il mito dell’Italia dei veleni e dei briganti fa un tutt’uno con quello
del suo splendore e col suo speciale gusto della vita, con “l’adorabile Italia”
di Henry James. Al suo consolidamento contribuirono non poco anche le strade
polverose e la tortura delle dogane, ma sarebbe qui opportuna l’analisi
comparativa coi paesi d’origine dei viaggiatori per cercare di capire come mai
lo sferragliare delle carrozze fosse sulle nostre strade del tutto particolare,
perché alla constatazione dell’abbondanza e della qualità dei cibi serviti si
volesse aggiungere la lamentela per il trambusto degli alberghi e l’ossessivo
odore di minestrone.
“Il secoloXIX”, febbraio 2007