Genesio Tubino

Gramsci jazz

Roberto Franchini  Gramsci e il jazz (Bibliotheka 2024)

Brividi epilettici scuotevano il corpo elettrico, ma non era precisamente l’avverarsi di una profezia futurista. Secondo Arnaldo Fraccaroli il garbo e la discrezione dei latini doveva ridurre alla ragionevolezza le furie e mattane del jazz afroamericano: “il jazz è un problema sociale… si è impadronito del mondo” (Il Corriere della Sera, dicembre 1928). Per niente accomodanti e bellicosamente ostili a mediazioni, le camicie nere torinesi preferivano manganellare chi, come il torinese Renato Germonio, era sorpreso a suonare anche solo The Sheik of Araby al Valentino. Mentre la musica che tanto piaceva ai grassi predatori bianchi (M. Gor’kij) non era immune da sospetti nell’Unione Sovietica, Gramsci affidava le personali riflessioni sulla questione a pochi accenni (se ne occuparono già Luigi Spina e Franco Bergoglio) contenuti in lettere ben posteriori alle cronache sulle pagine dell’Avanti dove il tema era per forza di cose assente, se si tiene per buono il 1917 come prima data d’incisione di un disco jazz. Il praghese Franz Werfel stigmatizzava la voglia di godere di masse arraffa-piaceri appena sfuggite alla strage del primo conflitto mondiale, “una gioventù degenerata accompagna con il deretano un ritmo di sassofono. Dieci milioni di morti! Una generazione che si avvia a passo di shimmy verso nuove catastrofi...” Parlare di jazz equivaleva a parlare di ballo e solo intorno al 1920 Torino conosce lo shimmy (in attesa del 1935 quando vi suonò Armstrong). Da rari spunti epistolari, del 1927 e ‘28, Franchini parte per valutarne il peso e il ruolo, intuibile per lampeggiamenti e cenni sfuggenti, all’interno della più generale teoria gramsciana sulla cultura popolare. L’inciso in cui Gramsci confida che, nella detenzione, non si fa sfuggire nemmeno i libri di bassa qualità, va interpretato nel contesto del suo generale interesse per la cultura popolare ed il consumo di massa. E per quanto mediato da letture, non dalla vituperata radio e tantomeno dai dischi, il rapido confronto col jazz (non c’è all’orizzonte nessuna possibilità di leggere in chiave nazionale popolare il jazz come corrispettivo “negro-americano” del nostro melodramma) si rivelò cruciale per ridefinire il posto della modernità, cioè dell’americanismo, nel primo dopoguerra europeo. La questione jazz risaltava sullo sfondo di un dibattito, cui non sono aliene sfumature scherzose, sul carattere identitario dell’Europa bianca e cristiana, già lavorata ai fianchi da una penetrazione d’ideologia asiatica (Tagore e Gandhi, mediato da Tolstoj, in primis). Gramsci sospettava a ragione che il maggior candidato all’egemonia in Francia (al tempo punta avanzata della penetrazione americana) e i più pericolosi antagonisti della residua cultura di destra, monarchica e cattolica sarebbero stati  il modello statunitense, la massificazione, la semplificazione. Di più: con la sua primitiva elementarietà, facilmente assimilabile e, grazie al ballo, allargabile per automatismo a tutto il mondo psichico, il jazz era “una molecola di una civiltà eurafricana” (lettera a G. Berti). Altro che surrealismo, Parigi era “una mezza colonia dell’intellettualismo senegalese”, quel jazz un pericoloso attacco all’omogeneità della civiltà occidentale, più letale dell’innesto di uno spiritualismo asiatico sul ceppo della razionalità cristiana. Il fordismo musicale portato dalle band afroamericane dettava il nuovo corso dell’ascolto distratto, forte del calo d’attenzione richiesto dalla civiltà meccanica a stelle e strisce, evasiva o irrazionale. Questa l’America cui guardava pure Pavese, pensosa e barbarica, felice e rissosa: disarmante nella sua insolenza, la chiassosa tattica del jazz si manifestava vincente. Anche Anton Giulio Bragaglia scriveva di un “incubo negro che ci assilla, più del pericolo giallo ormai…” (Jazz band) annuncio di future cupe tragedie per questioni di colore. La nuova sensibilità musicale si modellava al ritmo brutale e lascivo di una forza barbarica tale, scrisse Alfredo Casella, da smuovere un cadavere: quello di una senile morente Europa, appunto.