Caterina Ricciardi
Jorie Graham,
i luoghi come riscatto
Con
maggiore tempestività rispetto all’Angelo
custode della piccola utopia, una scelta di poesie dal 1983 al 2005 apparsa in Italia nel 2009 per Sossella,
esce presso Mondadori Il posto (“Lo
Specchio”, pp. 231, € 18,00), l’ultimo libro di Jorie Graham, anche questo
affidato alla cura esperta di Antonella Francini. Il titolo è eloquente nel
fissare l’anima cui si ispira ormai da tempo la personalissima ricerca poetica
di una poetessa non più dell’ultima leva ma affermata indagatrice del rapporto
dell’io con il mondo, e i problemi del mondo (le guerre, l’ecocidio),
attraverso l’arte delle parole ‘in ritmo’ e in ‘fluire’ (anche spazialmente
sulla pagina). È eloquente, quel titolo, perché per Graham il ‘poetare’ e
l’‘abitare’ sono in fraterna connessione esistenziale, posseggono la chiave per
impegnarsi nel mondo.
Jorie
Graham ha qualche ragione biografica in più per dibattersi con la condizione
dell’essere nello spazio e nel tempo, nel tempo della Storia, il tempo della
memoria personale e quello del vivere il frammento del presente, il tempo in
atto – per esempio, mentre si disfa o si recide un fiore o nell’andirivieni di
un giro d’altalena –, proprio perché è cresciuta a Roma, sulle pietre
calpestate delle inalterate stratificazioni del posto/tempo verticale ‘Roma’ –
e ci tiene a dirlo anche se con altre parole. Ella ha dovuto poi, da adulta,
imparare a “come diventare cittadina di un posto”, negli Stati Uniti, “libera
dal peso della storia”(ma è possibile liberarsi della storia? La sua risposta è
no, naturalmente). Cittadina di un “posto”: così ha definito la propria
posizione nel suo paese in un’intervista alla “Paris Review” del 2002, in cui rievocava gli anni di studio e di
insegnamento in Iowa, più consapevole, lì – nello spazio illimitato,
orizzontale e senza orizzonti –, di uno
spazio “geologico”, anch’esso verticale ma governato da un tempo unicamente
“geologico”: un altro tempo, un altro posto, erede di quella che una volta era,
ed è a tratti, solo una prateria.
Questi
sono gli inizi di Graham, che è americana e ha nel sangue il seme dei padri e
il loro rapporto di fondazione, anche conflittuale, con lo spazio. Le ventidue
poesie raccolte in Il Posto – un
libro molto maturo – hanno spesso in esergo l’indicazione di un posto e di un
tempo. Per esempio la prima, Tramonto
(St. Laurent Sur Mer, 5 giugno 2009), porta incisa nel titolo la
commemorazione dello sbarco in Normandia sulle spiagge di St. Laurent,
Colleville-sur-Mer e altre, note collettivamente come “Omaha Beach”, il nome in
codice loro attribuito dall’invasione alleata. Questo è il posto in cui Graham
vive in alcuni periodi dell’anno (a ‘Omaha’, Francia, non Nebraska), quando non
è a Roma o a Harvard dove insegna, un posto sabbioso costellato da bianchi
sepolcreti di caduti in guerra. Ed è qui che l’io della poesia Tramonto, nella luce declinante di una
vigilia storica che costò molti morti, vive un’esperienza visionaria stimolata
da un galoppare impetuoso alle spalle. Cavallo e cavaliere “s’aprono un varco
per riscattare / la vita” e “un posto dove nessuno / all’improvviso venga di
nuovo / ucciso – il “perché” non importa – nessuno”. La ricerca poetica di
Graham riesce solitamente a imbastire un esorcismo, un modo per riscattare la
Storia e la vita in un posto in un frangente di tempo, perché, nel caso
specifico, le impronte degli zoccoli sulla sabbia sono “subito ricolme di
migliaia di / pulci di mare”: una “vita microscopica” che ripara quella
annientata dal galoppo della Storia di sessantacinque anni prima e restituisce
luce a quel posto: “e quando chiudo gli occhi non sono come un cieco” ma “come
chi vede / a occhi chiusi / poggiando i piedi / uno alla volta / giù sulla
terra”. La poesia, bisogna dirlo, consola e rinnova lo stato (e il compito)
dell’essere nel mondo.
Da
Omaha e il 2009 (e il 1944) Graham sposta il lettore a “Cagnes Sur Mer 1950”, l’anno
della sua nascita, l’impatto contrastivo con la poesia che precede è
straniante, ribaltante. Cagnes marca la sua prima esperienza da ‘espatriata’
sulla Riviera all’età di cinque mesi. La condizione di chi espatria (come di
chi nasce) è un’esperienza spaziale, un porsi in un posto, un relazionarsi con
l’oggettività del vivere in relazione a cose e spazi, e al tempo del posto che
via via si muta in un tempo personale: un esserci. Ma qui Graham impregna in
altro modo quell’idea del ‘fuori patria’ per spingersi indietro fino al posto
della pre-natalità.
Mossa
dal vago ricordo della voce della madre all’ombra di un arco romano a Cagnes,
lei ricostruisce una scena primaria: “Come l’arco e la voce e l’ombra /
violentemente afferrano il piccolo triangolo / della mia anima, un film muto
dove note di piano / diventano un corpo impazzito / per le immagini saltellanti
dello spirito – patria abbandonata – miracolo da cui / si riemerge vivi. Così
qui, io di nuovo / rileggo il libro del tempo, / il mio unico tempo ”. È il “suo inizio” che le interessa, “macchia
scura dove una storia non diventa ancora un’altra, / e le parole, non giunte a
me ancora, ancora non proveranno a dirmi
/ da dove vengono le cose, né dove vanno”: è il tempo e il dove del “prima che
io conoscessi la conoscenza”. Il passaggio al conoscere sembra concretarsi
nella memoria di un cesto di limoni osservato nelle mani della madre: “Tutto
ciò che avrei inventato in questa vita è là nel cesto di vimini fra i limoni”,
perché da lì sorge un riconoscimento del sé nel posto e nel tempo del mondo:
nel semplice “eccoti, eccoti”
pronunciato dalla madre. È in quel momento, dice il poeta, che “mi fu dato il
mio nome”.
Il Posto
racconta il viaggio dell’esistere nel mondo e nel mondo della poesia. Jorie Graham
è poetessa colta, maturata nelle classi di “creative writing” e sulle pagine
del canone, un grande libro novecentesco (con qualche punta scespiriana) che
nel gentile ‘riciclo’ non pretende perizia dal lettore. I richiami alla
confraternita dei poeti ‘alti’ scivolano come acqua che scorre limpida nei
versi, senza quasi lasciare traccia nel modo in cui Graham lascia che
impregnino lo spazio della nuova pagina, occupando lì un proprio posto:
ammiccamenti lievi, un fruscio di fronde in un dettato tutto personale, mai
elitario persino quando si dirama in percorsi meno ordinari.
Non
spaventi, dunque, il lettore la complessità dell’ultima, lunga poesia: Messaggio dalla cattedrale di Armagh 2011.
Un altro posto, naturalmente, questa volta un’antica cattedrale in Irlanda nel
momento in cui si svolgono le prove di un matrimonio. Ed è proprio quella
cerimonia a condensare l’attimo del ‘qui’ e ‘ora’, parole connotanti una
‘presenza’ letterale e spirituale, che fa muovere l’anima antennata di Graham
verso le pietre più segrete di quel posto. Per esempio, l’‘idolo’ celtico
dell’Età della Pietra che vi è custodito: una scultura “grande come un neonato”
che “stringo come facevo con mia figlia”. Non si tratta di un menhir qualunque.
Come sapevano bene i rappresentanti del Rinascimento Celtico di fine Ottocento,
quella rozza scultura rappresenta il re dei Tuatha Dé Danann, privo del braccio
perso in battaglia, qualcosa di molto sacro per l’Irlanda gaelica, che Jorie
Graham riesce a leggere in termini a lei intimamente personali e storicamente
contemporanei. In January God, una
lirica breve del 1972, anche Seamus Heaney si lascia coinvolgere in
un’esperienza del sacro simile a quella di Armagh quando, sull’isola Boa, si
trova al cospetto di una pietra bifronte e bisessuale. In entrambe le poesie
c’è un “messaggio” per noi: proviamo a leggerlo. “il manifesto - alias”,
13 aprile 2014