Jean Montalbano
L'inaspettato tra nonsense e sgomento
Artista enigmatico quanto
Edward Lear o bizzarro quanto Lewis Carroll, per le sue tavole d'ambientazione
vittoriana o eduardiana Gorey fu spesso creduto
inglese (non da Edmund Wilson che, presentandolo nel 1959 ai lettori del New
Yorker, ne ricordava il piccolo mondo nostalgico, claustrofobico, avvelenato
oltre che divertente). Oggi goreyesco è
aggettivo di successo nella galassia “gotica” americana indicando quell'accento
particolare che ci muove a un sorriso malato ed inquietante. Strapparlo al
fascino degli anacronismi e delle torbide ossessioni è l'intenzione di Mark Dery (Mark Dery:
Born to be Posthumous:
The Eccentric Life and Mysterious
Genius of Edward Gorey. Little, Brown
and Company 2018) per il quale Gorey
è semplicemente un genio sottovalutato (più problematico concordare con la
definizione di “vita eccentrica”). Dai suoi accurati tratteggi sbalza
l'inquietante annidato nelle apparenze familiari in una creativa ripresa dei
toni dei due illustri predecessori inglesi dell'ottocento fino a comporre una
psicopatologia della vita domestica esorbitante la sola immagine edulcorata
dell'infanzia in epoca vittoriana. La cronaca nera ne orientava il tratto:
ritagli da penny press del XIX secolo, illustrazioni macabre deviate da
repertori di comuni delitti, infanticidi, mogli picchiate, atti di violenza
insensata (e quanti libri Dover saccheggiati), ogni evento evocato da Gorey per ribadire la linea prescelta, ovvero mettere a
disagio il lettore catturato da sequenze narrative spesso mute (al più
accompagnate da cartigli a mo' del prediletto Louis Feuillade).
Tutto vero ma da qui ad
arruolarlo nella affollata legione di agenti-del-caos (in compagnia dei beats, magari) di quanti cioè sfidavano l'ottimismo
alla Doris Day anni cinquanta, ce ne corre:
libri-sentenza, allora, come caute obiezioni al presente, esenti da orpelli e
superflui preziosismi. Più sommessa e occulta, la sua vita trascorse lontano da
grida ed exploits, poco o nulla avventurosa (una delle rarissime volte che Gorey si recò all'estero, giunto in Inghilterra si diresse
verso la Scozia, senza riuscire a veder il mostro di Lochness e tenendosi ben
lontano dalla Londra con cui pure avrebbe dovuto condividere parecchio
immaginario). Tutt'altro che commedia nera, fu un'esistenza con poco in cui
scrutare con preponderanza di ovvio e scarsità di eccezionale, facendo
sospettare anzi una discreta povertà emotiva.
Tanto normali e routinieri
gli eventi biografici quanto bizzarri i disegni, tanto
intellettualmente
onnivoro quanto evasivamente incline ad assumere pose anti-intellettualistiche
nelle dichiarazioni pubbliche: l'enigma è affrontato da Dery
dando ampio spazio alle testimonianze di conoscenti e amici (termine che nel
caso di Gorey va preso con molti distinguo) per
poterne tracciare una biografia virata essenzialmente su di una (biblio)grafia. Alle tante opere, esili nella paginazione
quanto ridotte nei formati, come per essere sfogliate solo da mani infantili, è
rimandato ogni saggista alle prese con un ritratto di Gorey
ed in questo Dery, impegnatovisi per sette anni, ha
dissodato parecchi archivi e superato manifeste reticenze per infine arrendersi
al mistero “Gorey”, rimasto tale al termine di un
tracciato corposo ma zeppo di superflui dettagli e frequenti ripetizioni.
Forse l'eccentricità di Gorey stava proprio nel passare tanto tempo al tavolo da
disegno o a rivedere vecchi film nella convinzione che, una volta accertato
quanto già fosse pericoloso scendere dal letto, ai tanti suoi contemporanei
desiderosi di scalare l'Everest bastasse opporre una scrollata di capo: proprio
come nelle sue storie la noia non esclude il pericolo o l'insignificante stinge
nel mistero. Bulimico nell'accumulo di materiali, generoso nei riepiloghi e
avaro negli scorci sintetici, Dery desidera
consegnare la bio definitiva ma più che
nell'indiscriminata sequenza di minuzie dà il meglio quando affronta
puntigliosamente i manufatti cartacei del suo autore alle cui spalle sta
l' interesse per ogni sorta di ricerca psichica, materia occulta o astrologica,
altrettante vie di fuga o aggiramento del reale come rete di causa-effetto: un
sublime intuito o sperato, sciolto dalla rete di un iniziale terrore. Vicino a
questo, i relitti di memorie surrealiste (“Sulla spiaggia un pipistrello, o
probabilmente un ombrello, si liberò dalla sterpaglia inducendo chi gli stava
vicino ad evocare la miseria dell'infanzia” da The Object-Lesson) come i tanti tributi a Magritte ed il franco
debito verso Max Ernst così da disegnarne un profilo lontano da quello di mero riepilogatore di stampe vittoriane con le onde di Hokusai a lambire le coste inglesi, senza trascurare la
ripresa degli spazi bianchi alla Beardsley. Ma linee
nette e spazi bianchi producono inquietudini che resistono alle razionali
soluzioni o alle spiegazioni definitive. Se a monte stava l'ammiratissima Agatha Christie, dei mysteries Gorey lasciava cadere i finali esplicativi e
chiarificatori; così prediligeva il sottaciuto ed inespresso dei “muti” su cui
si formò partecipando, fin dai primi anni 50, alle proiezioni di film rari
organizzate dallo storico e collezionista W.K. Everson.
L'insolito (per) Gorey accadeva nella vita governata da rituali o tra atti
sorvegliati dalla routine. Così Natale (giorno che, come ad altri
senza-famiglia, gli capitava di passare vedendo quattro o cinque film) venne da
lui celebrato su Esquire del dicembre 1966
attraverso una lettura dei tarocchi, uno dei suoi tanti dichiarati interessi insieme
alla chiromanzia e alla grafologia.
Quando non sono echi di
bestiari medievali (The Utter Zoo, 1967) i
suoi libriccini possono rimandare a viaggi religiosi o richiamare mystery
metafisici in forma di film muto (Willowdale
Handcar, 1962, giustamente dedicato alla venerata
Lillian Gish) o proporsi
come parodie dei libri puritani per l'infanzia, intaccando la sacralità
dell'alfabeto con cui pure dovrebbero familiarizzare. Qui la sua guida erano
tanto il Lear del Nonsense Alphabet che il Belloc del Moral Alphabet piegati,
nella tranquilla perversione, ed oltre Seuss e Sendak, a lambire la materia buia e la commedia nera.
Sotto l'apparire
eccentrico, fu questa natura riservata a permettergli di offrire un personale
contributo a quella rivolta attraverso lo stile che in modi più o meno irrelati
le sottoculture giovanili inscenarono nel secondo dopoguerra. Alieno dal
movimentismo politico e dal rivendicazionismo fondato sui diritti, Gorey scelse di continuare a mantenere un profilo separato
ed elitario, rivendicando una cultura high (film soprattutto muti, chic
edoardiano, balletto, prosa concettosa inglese fino a Firbank,
Waugh e Compton-Burnett) vicina al camp letto
dalla Sontag e lontana, soprattutto esteticamente, dalla turbolenta
affermazione identitaria gay, ai suoi occhi
sbracata, degli anni settanta.
Nel dopoguerra, ad
Harvard, lui e Frank O'Hara, “fecero” una controcultura in due: secondo Dery, Gorey fu l'hipster originale anche se il suo nome risulta ignoto ai
tanti che oggi sfoggiano taglio di capelli e barba edoardiana nei centri
metropolitani ma non ne capirebbero il camp a tratti sepolcrale. Pur nelle pose
da esteta e ozioso, Gorey risultò prolifico quanto a
produzione libraria cui vanno aggiunte le tante illustrazioni di libri non suoi
e, ricorda l'autore del saggio, la sua collaborazione con Anchor Books lo rese
un protagonista non secondario nella rivoluzione dei paperbacks
avvenuta negli anni cinquanta. Da illustratore freelance si sentì spesso
costretto alla linea di produzione di cui era unico responsabile e dunque, con
la maturità ed una tranquillità economica, scelse di lasciare New York per
trasferirsi a Cape Cod salvo ritornare nella
metropoli per seguire l'immancabile stagione dei balletti: il ruolo di Balanchine nella sua vita era simile a quella di una
divinità, indicandogli una via di fuga dalla gravità e dal mondano. Da un altro
lato, a partire dal 1974 potè esternare i suoi gusti
idiosincratici per i film classici su un settimanale alternativo di Soho mentre
parallelamente andava prevalendo la passione per la scena teatrale.
Allestimento di Dracula, riviste musicali (Gorey
Stories) adattate dai suoi libri, scene per un Don Giovanni diretto
dal giovane Peter Sellars (1980), o per l'Eliot
gattofilo: la febbre del palcoscenico dilagò negli ultimi anni in lavori
teatrali (intimi e per niente spettacolari) imbastiti su nonsense vittoriani, assurdismi alla Allais e,
soprattutto, ben lontano da motivazioni psicologiche o sviluppo di caratteri,
fino all'amatoriale “teatrino stoico” (anche con burattini) dell'età avanzata
allestito dal suo occhio “surrealista” per l'objet trouvé. I libri per parte loro, perse anche le già parche
porzioni di testo, abbandonate le ultime apparenze di libri-per-bambini, si
squadernavano in pop-ups o abbracciavano una ludica
combinatoria (Mélange Funeste, Les Échanges Malandreux o The
Tunnel Calamity) chiamando il “lettore”
all'attiva partecipazione in una interattività consegnata alla causa dell'opera
aperta o dell'Oulipo. A quel punto, ingrossatosi il
culto dei seguaci e avviato alla grande il mercato del collezionismo e delle
ristampe, affacciatisi alla ribalta mediatica i suoi ammiratori (del 1993 è The
Night before Christmas di Tim Burton) al
principio del terzo millennio Gorey potè a sua volta, complice un cuore parecchio malandato,
“tirare le tende”.
“Fogli di Via”, luglio 2019 (anticipazione)