Carlo Romano
con la gola nel
cuore
Leggo che il soave direttore d’un telegiornale ha
innalzato la sua protesta contro la voga di una gastronomia sempre più
estremista, poco o niente rispettosa
delle consuetudini, che giustifica le più improbabili torture inflitte al
palato e alle tasche con la pretesa della creatività. Mario Giordano in Siamo
fritti (Mondadori) dice di preferire la cucina della mamma – e si
potrebbero tranquillamente aggiungere le zie e le nonne – a quella dei cuochi
che cuociono i cibi, già astrusi nei nomi, persino con la fiamma ossidrica,
protetti più da gastronomi compiacenti che da occhiali per saldatori. Lo scorso
anno, poco prima di lasciare questa valle di lacrime, il non dimenticato Luigi
Veronelli ebbe la soddisfazione di veder ristampato da DeriveApprodi un libro
originariamente proposto, nel lontano 1966, da Feltrinelli il cui titolo (invariato)
sembra quasi voler contrastare con largo anticipo gli odierni “stilisti” dei
fornelli: Alla ricerca dei cibi perduti. Col suo tocco
inconfondibile, amabilmente farraginoso, l”anarcoenologo” - come amava
definirsi, avendo fra l’altro difeso un certo gusto non con la sola teoria ma attraverso
l’agitazione contadina – si affidava al canone astrologico per infarcire alcuni
terragni ricordi di ricette stagionali e vini. Fra l’altro, la stessa casa
editrice ha appena mandato in libreria Il gambero nero di Davide
Dutto e Michele Marziani, dedicato all’inventiva gastronomica dei carcerati. Si
tratta di un libro essenzialmente fotografico il quale reca nondimeno un
significativo gruppo di ricette. Tutto ciò non è casuale, nel momento in cui si
assegnano alla DeriveApprodi due dei libri di cucina che più hanno destato
interesse negli ultimi tempi. Si tratta de La cuoca di Buenaventura
Durruti (2002, giunto quest’anno, in aprile, alla terza ristampa) e La
cuoca rossa. Storia di una cellula spartachista al Bauhaus di Weimar
(2003). Nel primo (prefato da Veronelli) le ricette sono tenute assieme dal
diario di una giovane militante rivoluzionaria che nella Spagna degli anni
trenta prende parte alle azioni della “Colonna Durruti” (le cui vicende
raccontò molto bene H.M.Enzesberger in La breve estate dell’anarchia,
Feltrinelli 1973). L’altro, similmente, allinea ricordi e ricette di una cuoca
in attività presso il Bauhaus di Walter Gropius. Si tratta palesemente di due
testi apocrifi. Il mio sospetto, fin dal loro apparire, è che siano stati
realizzati da Gianni Emilio Simonetti, anche perché, ma non solo, e in effetti
vorrebbe dire poco o niente, alcuni suoi saggi sono pubblicati dallo stesso
editore. C’è inoltre una fotografia (i volumi sono impreziositi da diverse
illustrazioni) che credo anch’essa “apocrifa” e nella quale ho riconosciuto
proprio lui. Ancorché l’interessato neghi ogni addebito, non è trascurabile il
fatto che Simonetti lo conosca personalmente piuttosto bene. Recentemente,
sempre per DeriveApprodi, è per di più uscito – questa volta firmato – un romanzo, La vivandiera di Montélimar,
in cui Simonetti racconta di una ragazza che dopo aver partecipato ai moti
della Comune di Parigi fonda – dispensando consigli e ricette - una scuola di
cucina. Il mio modesto teorema potrebbe aver trovato a questo punto un’altra
pezza di appoggio.
“Il
Secolo XIX”, 30 maggio 2005