CarloRomano

gladiatori

Se il Colosseo l’avessero costruito oggi apparirebbe “in mezzo agli svincoli del suburbio come un cargo spaziale in secca”. Nel volgere di pochi anni l’Anfiteatro Flavio avrebbe cambiato nome col rapido succedersi degli sponsor: Palatrussardi, Palavobis, PalaTucker, Mazda Palace, condannato, come noi, a “ricercare un senso più grande in vicende marginali”. Antonio Franchini con Gladiatori (Mondadori 2005, 15 euro) ci porta, con un incedere che in America porterebbe lui al Pulitzer, dentro arene grandi e piccole – spazi ambiziosi e palestre di periferia - e ci fa conoscere i loro moderni combattenti, si tratti di pugilato o di wrestling, di kickboxing o di freefight. Coadiuvato in qualche caso dal fotografo Piero Pompili, che in quindici anni ha scattato la bellezza di ventimila foto pugilistiche, Franchini ci mette in un contatto a tratti fisiognomico, con questa umanità che di straordinario ha spesso soltanto l’esotica fantasia d’un nomignolo. A Roma troviamo un pugile che somiglia a Franco Citti: “nun sembra Franco Citti” dice Pompili a Franchini, “con quella faccia da operaio, da carpentiere, da campione de questa Roma… de questa Roma dostoieschiana… nun cià voglia de fa un cazzo ma è un grande pugile”. Poche righe, parlando poi della cagefight, la lotta nelle gabbie, bastano a fissare  (o a riattivare) nell’immaginazione le tipologie del combattente: “ce ne sono di apollinei…  - uomini che tendono per indole e portamento ad assimilarsi a ciò che in natura è rappresentato dai felini o dai serpenti velenosi  - e di enormi, col corpo piombato da masse muscolari simili alla corazza dei rinoceronti”. E ci sono i racconti, alcuni lunghi, di vicende personali che persino nei momenti privilegiati dalla fama, seppur vaga, restano marginali, confinati nel sottobosco delle città e dell’informazione, senza però alcunché di miserabile, proiettati piuttosto in un’epica addomesticata dalla semplicità dei sentimenti. Esemplare la storia di Giancarlo Garbelli, “el Garbelin”, uno degli amici pugili di Giancarlo Fusco, che l’ammirava. Figlio di pugile, e di pugile fascista ucciso il 21 aprile del 1945, tentò dodicenne di unirsi ai partigiani per sfuggire al collegio - i suoi erano divisi – ma continuò, anche nelle palestre gestite nel dopoguerra dall’Anpi, a rivendicare la figura del genitore: “io non sono fascista”, diceva a Fusco, “ho solo voluto bene a mio padre.” Infine c’è il wrestling, atletico balletto della condizione umana nel quale sono rappresentati l’amore e l’odio, e non è l’amore quello che necessariamente deve vincere. C’è il suo teatro, il suo spettacolo predeterminato dove si è preliminarmente d’accordo su chi deve vincere e chi deve perdere - Franchini racconta la storia dell’unico caso che non andò come da copione   e c’è chi, come il giapponese Ted Tanabe, spinge questa finzione alle vette dell’orgoglio nella dubbia comparazione col pugilato: “uno è combattimento, l’altro è arte”. Con questo nuovo libro, Franchini - dopo gli esordi nei primi anni novanta con due libri di racconti riproposti in parte  nel 2003 da Avagliano in Quando scriviamo da giovani – conferma la sua vena, per così dire, da inchiesta giornalistica tinta di romanzo, che ha fruttato, pubblicati da Marsilio, Cronaca della fine – la storia di Dante Virgili, autore, presso Mondadori, dell’unico  e a lungo dimenticato romanzo “scopertamente nazista” della letteratura italiana (lo ha riproposto qualche tempo fa Pequod) di cui si accorsero in pochi e fra questi il comunista Mario Spinella – e L’abusivo – su Giancarlo Sani, giornalista del “Mattino” ucciso della camorra nel 1985.