Rocco  Lomonaco

da Bartezzaghi a Eraclito: giochi a perdere

Stefano Bartezzaghi Scrittori giocatori, Einaudi 2010 ! Eugen Fink Oasi del gioco, Raffaello Cortina 2008 ! Eugen Fink – Martin Heidegger, Eraclito Laterza 2010

 

“Il mondo non è la casa del Re, ma la sua prigione. Chi cerca il Re nella prigione, senza esserne prima evaso, cozza contro una regola fondamentale e gli sfugge senz’altro qualcosa di enorme importanza”( Ibn Al- ‘Arabi)

A prima vista raccolta rimaneggiata di scritti di diversa occasione, Scrittori giocatori ( Einaudi 2010 ) di Stefano Bartezzaghi accoglie invece tra le righe preziose suggestioni ed inquietanti aperture sul tema evocato dal titolo e proprio a partire dall'opera di scrittori italiani e stranieri noti e rispettati per tutt'altra serietà d'impegno. Dal gioco “minore” praticato in aree attrezzate e riservate alla creazione di giocattoli più o meno artificiosi e ludici al gioco “maggiore” in cui lo stesso scrittore è coinvolto, se non a sua insaputa, quantomeno contro-voglia, spossessato dei ferri del proprio mestiere e volentieri a sua volta giocato. Se così John Cage è letto, al di là delle pigri lodi al caso con cui viene identificato, soprattutto come ferreo costruttore di regole, e Truman Capote, smarcandosi dai professionisti- gestori del gioco si afferma come scrittore- gambler per l'eccessivo coinvolgimento pronto a rischiare contro la stessa realtà di cui si nutre, in Giuseppe Pontiggia, seguendone l'agonismo letterario sul filo della metafora scacchistica, Bartezzaghi rileva un impulso alla vertigine e alla sorpresa che coglie l'autore quando il gioco letterario sia condotto sviluppando rigorosamente le mosse iniziali, finché la passione diventa calcolo e il calcolo fantasia. La scommessa è vinta se l'artista progetta qualcosa che superi le sue capacità, rivelandogli qualcosa che prima ignorava, a rischio dell'incomprensibilità. Giocatore che gioca contro il gioco progettato e vince nell' abbandono della sconfitta. Attraverso l'interrogazione della distanza tra lo scrittore e ciò che dice, tra l'autore ed il linguaggio è la stessa verità che viene messa in questione. Dove si mostrano la disperazione di un'impresa volta ad affermare la separazione tra vita seria e sfera del gioco e la vanità di siffatte limitazioni la vita “ può essere considerata una partita di cui non conosciamo le regole e lo svolgimento”, salvo ipotizzare una razionalità nel divertimento di dei olimpici che si divertono ad osservarla dall'alto.

Quando Eugen Fink si volse al tema del “gioco come simbolo del mondo” (così recitava il titolo di un suo libro del 1960) parve raccogliere l’esortazione del maestro Husserl a ritornare alla cose stesse mettendo alla prova l’estrema (l’ultima) teoreticità occidentale con l’immagine sfuggente presocratica di qualcosa che un suo condiscepolo, Heidegger, aveva da alcuni decenni brevettato come “essere”.

Considerato sintetica e straniante declinazione dell’invito husserliano, Oase des Glücks (riproposto  dall'editore Raffaello Cortina col titolo Oasi del Gioco) apparve nel 1957 e fu già tradotto nel 1969 da Rumma Editore come “Oasi della Gioia”; solo il curriculum di un rispettato fenomenologo accademico, quale Fink era, poteva consentirgli il corpo a corpo con un “oggetto”, il gioco (segnale di altre apparentate “irrealtà”, riflessi, ombre) dallo statuto ontologico a dir poco problematico e con un agire, l'attività ludica, elevato a  test filosofico per misurare l’aderenza della strumentazione concettuale alla povertà ingloriosa e dimessa dell’agire del quotidiano.

La fenomenologia in primis, ma solo in quanto grande erede di una storia bimillenaria, deve vestire gli stracci dell’ordinario nello stesso momento in cui fa il gesto di allontanarsene per pensarlo,    problematizza il quotidiano (lo pone tra parentesi) ma distanziandosene non smette di abitarvi, proprio come nell’agire ludico siamo “presi” e contemporaneamente siamo pronti a riconoscerlo “solo” un gioco. Sta nel mondo come se non ci stesse.

Così la filosofia ha concettualizzato il mondo servendosi di oggetti e strumenti subito superati in quanto ombreggiati, fin dalla loro scelta elettiva, da un limite costitutivo; gravati da quell’ombra che, per l’equivalere di troppa chiarezza e cecità, sola ci consente di vedere. Ombre sono non solo le cose, ma pure i concetti che permettono alla filosofia di scoprire quelle ombre, cominciando proprio dai dati sensibili, ombre di significati istituiti dall'uomo nel ripetere il gesto di un bambino che, giocando, conferisce nuovi significati ad oggetti quotidiani.

Simbolo dell’essere stesso, il gioco “anticipa” l’interpretazione filosofica della vita, esibendone la struttura fondamentale capace di dare senso alle forme di vita dell’uomo. Pensato a fondo seguendo il paradigma ludico, il rapporto uomo-mondo non è oggettivabile, ma è la filosofia stessa, che vive l’esperienza umana e contempla: teorizza il nostro stesso vivere.  In questa divaricazione sta l’autentico filosofare: ridursi all'osso per aprirsi all'essere.

Ad una povertà di mezzi reali (bastano gli aliossi di Eraclito) corrisponde un carattere sfuggente alle generalizzazioni o concettualizzazioni; rispetto ad altre dimensioni (lavoro, amore, potere) il gioco non si pone scopi e risultati; non esaurendosi in nessuna opera, il suo svolgimento vale come opera, ma questa “irrealtà” non è solo illusione soggettiva. E’ creazione di un proprio spazio-tempo grazie all’interruzione della continuità (diversamente illusoria) dell’agire quotidiano.

Venuta meno la dimensione della progettualità strumentale, affrancato dalla zavorra dello scopo, il gioco esita in uno spazio-tempo irreale: un’oasi in cui s’arresta la freccia unidirezionale del tempo e salta l’affanno abitudinario giornaliero. Non c’è assenza di pensiero ma aura di senso in cui si muovono il gioco con le sue regole e il fare ludico del giocatore che si distanzia da sé, confrontato alla scissione tra un attivo giocare e l’esser messo in gioco, tra sospensione e mantenimento della realtà una volta liberato dalle costrizioni della vita seria, dentro e fuori dal ruolo assegnatogli.

Affascinato dall’agire non servile del gioco, il filosofo immagina lo svolgersi della totalità del mondo, al di là dei sensi e delle preoccupazioni umane; come il bambino giocando si esercita all’esistenza e si apre al mondo degli uomini (tutto quanto per Primo Levi costituiva L'Internazionale dei bambini) così quel che sfugge alla presa delle nostre esperienze può diventare tema di rappresentazione. Né si tratta di eleggere, idolatrandola, l’immagine del gioco a simbolo del mondo (il che ci lascerebbe tra le dita un gioco “oggettivizzato”). Dunque il buon fenomenologo riconosce che il gioco non è oggetto in cui si raccolga o rappresenti il mondo, ma bagliore che per frammenti illumina sul modo di rapportarsi di uomo e mondo; in un gioco, uomo e mondo si rapportano.

“Intenzionato” dall’uomo che sempre si trascende verso nuovi significati, il mondo è coinvolto continuativamente in una coscienza “ridotta” a oltrepassamento e immaginazione, cui la verità si palesa come gioco di significati, gioco d’ombre. Non è vero che l’uomo è giocato nel gioco del  mondo, piuttosto nel gioco uomo e mondo stanno alla pari.

“Dal mondo procede l’uomo, dall’uomo il mondo; Dio crea l’uomo e l’uomo crea Dio” (Husserl, Ricerche Logiche)

E’ a partire da questo legame irrisolvibile che fioriscono le possibili analisi antropologiche o sociologiche (Huizinga, Caillois, etc) delle attività ludiche. Chiudere lo iato deprivandone uno dei poli, raffredda la tensione e indebolisce le potenzialità dell’immagine gioco, con esiti che, in varia misura, hanno accompagnato la storia del pensiero.

Il primo di tali sbocchi, antico quanto le metafisiche hindu, pensa come “gioco” l’assoluta contingenza che governa il sistema-mondo e ne struttura l’interna necessità; al di là di ogni spiegazione causale, nelle parole dello stracitato frammento di Eraclito, “il corso del mondo (aion) è un fanciullo che gioca…”. Motivo che, insieme a quello della cancellazione di ogni orizzonte che non sia lo stesso del gioco, ne segnala, Nietzsche docet, la colorazione nichilistica, fino al Sinisgalli di Antichi giuochi: “I bambini giocano sul sagrato/ con l’osso secco del castrato”. Senza perché, il gioco gioca in quanto gioca. L’immagine della felicità che l’uomo si fa è connessa al poter-dimenticare, alla capacità di sentire non-storicamente. “chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo, dimenticando ogni cosa passata, chi non è capace di star dritto su di un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai cosa sia la felicità e, peggio ancora, non farà mai qualcosa che renda felici gli altri” (Nietzsche,  Seconda Inattuale).

Fink argomenta che proprio il pensiero del gioco accennerebbe, nel creatore di Zarathustra, ad una filosofia situata nella segreta dimensione del Weltspiel, del gioco del mondo; pur ricordando l’idealismo classico, qui Nietzsche non subordinerebbe i rapporti dell’immaginazione, del tempo, della libertà e del gioco ad un essere originario inteso come Volontà e Spirito: il gioco (dell’uomo, del bambino e dell’artista) diverrebbe “concetto chiave” dell’universo, metafora cosmica. (Cfr.il seminario su Eraclito del 1966-67 tenuto insieme ad Heidegger e ripubblicato da Laterza).

Sarà Karl Löwith a sintetizzare la ripresa dell’immagine eraclitea nel dopo-Hegel come possibilità aperta ad un’esistenza divenuta senza strade o mete, quando al biblico “tu devi” subentra il moderno “io voglio”: laddove Eraclito, lontano dall’imperativo etico, si tiene distante pure dall’ “io voglio” sentendosi “non libero”, fato, fin nelle più intime fibre, senza alcuna posizione privilegiata nel mondo naturale. Implicato e compreso nel cosmo in divenire, l’uomo può primeggiare conformandosi al logos, alla norma del tutto, secondo sapere o ignoranza: “io sono” colui cui appartengono innocenza ed oblio. Imparare a giocare il gioco della necessità richiede apprendistato. Riconosceremo nel nostro regno dei fini e della ragione una provincia del caso, ovvero della stupidità cosmica che interferisce nei nostri progetti, lacerando la ragnatela dei nostri scopi ? Chiameremo necessità le mani che scuotono il bossolo dei casi considerando finalismo e razionalità come forme del getto di dadi e  la totalità del mondo finalistico come brano di un mondo afinalistico arazionale? Il sapiente insegna a dismettere  la vanità riconoscendo la limitatezza di quanto riteniamo premeditato (invece che legato al gioco della necessità) e che uomo e mondo, solidalmente agganciati, sono compresi in uno stesso e doppio movimento che li fa trapassare l’uno nell’altro. Mentre l’uomo si perde nel divenire universale, il mondo si concentra nell’uomo. Dal che discende l’oscillare poetico-filosofico tra formulazioni concettuali e metafore poetiche nell’impresa di tradurre l’esperienza inaudita del cosmo in divenire.

Tenendo presente questi sfondi, possiamo formulare un’immagine di mondo partendo da qualcosa del mondo, da un modello interno al mondo: il gioco umano. Questo gioco è un evento del mondo, un agire interno al mondo che differisce profondamente dal movimento complessivo dell’universo: tale differenza non va abolita. Parlando di gioco del mondo, dobbiamo innanzitutto aver distinto il gioco dell’uomo dal “governo del mondo”, ogni equazione essendo già alterata, originariamente dissimmetrica. Nel gioco umano, in quanto modo di rapportarsi al tutto, risplendono soltanto momenti rotti del mondo, in cui questo pare sfuggire o solo a fatica inserirsi nei registri della bisognosa preoccupazione; confrontato al corso della vita seria e produttiva, il gioco palesa i segni di un presente acquietato e di un autarchia di significato: oasi di felicità conquistata. Al gioco scandito da un’autosufficienza interna mancano mete che lo delimitino oltrepassandolo. Perfetto nella sua sferica chiusura, rapisce nei suoi scopi immanenti: il giocatore vi è immerso, quando non perso, intuendo che per lui e attraverso lui il gioco si svolge senza soggetti forti o individualità stabili. Il senso “mediale” che Gadamer avvertiva nel verbo “spielen”, Huizinga così provava a definirlo: giocare è un’attività di tipo tanto peculiare ed indipendente da sottrarsi ai soliti generi d’attività, “spelen” non essendo “agire” o “fare” in senso usuale. Conta piuttosto il movimento ludico, l’idea di una tessitura infinita nella sua ripetizione: il gioco rappresenta “un ordine in cui l’andare e venire del movimento ludico si dà come da sé stesso” (Gadamer). Questo il rischio che sovrasta e affascina il giocatore, attirandolo per metterlo alla prova delle sue illimitate possibilità.

Il giocatore contempla la sua rinuncia al comando una volta irretito nel prestigio del gioco che, non rinviando a contesti finalistici esterni al proprio svolgersi, si limita a ripresentarsi e, giocando, autorappresentarsi. Su ciò si fonda la possibilità per il giocatore di rappresentarsi qualcosa, una volta riconosciuto come fine l’organizzazione e strutturazione ordinate del movimento stesso del giocare (così Emile Benveniste in un vecchio “Deucalion” del 1947).

Meglio di altri comportamenti, dunque, il gioco “imita” il mondo nel suo distaccato divenire, rispondendo all’immotivato movimento del mondo ed alla sua mancanza di fondamento: senza ragione e mete esterne, il governo del mondo avviene come un bambino che gioca, tutto compreso nel suo gioco. Attraverso l’orditura del gioco, l’uomo si rapporta al mondo senza rappresentarselo come oggetto, ma aprendosi estaticamente alle forze che ordinano il cosmo: nell’esistenza umana risplendono tratti dell’infinito che la trapassano e le cose si dispongono come pedine e configurazioni di un gioco condotto da un fanciullo che le sposta senza meta: proprio perché siamo al mondo possiamo giocare e intuirne l’infondato. Qualcosa che accade nel mondo mostra tratti del tutto che produce ogni cosa; il cosmo traccia e segna con propri caratteri mentre dal gioco, interno al mondo, salta fuori una “formula concettuale” per il mondo. Nella quasi sferica autosufficienza del gioco, l’uomo sperimenta una finalità chiusa cui corrisponde il mondo come movimento errante senza ragione esterna al suo corso. Gioco del mondo ( e Il gioco come simbolo del mondo fu un altro titolo di Fink) che non è attività di una potenza personale, sia essa uomo o dio, ma che permette il comparire di persone, umane o divine: mondo che non è (nel senso in cui sono le cose nel mondo) ma che si fa mondo (weltet), mondeggia e non è spiegabile in base ad altro o fondabile su altro. L’essere di ciò che è, è del fanciullo, sue la regalità, la levità del gioco; in tale segreto è collocato l’uomo con il tempo della propria vita. (Così l'oracolare Heidegger si espresse in quel medesimo seminario degli anni sessanta: l’essere è l’unità che tutto collegando dà ragione di tutto ed è essa stessa senza ragione, principio di ragione che spiega l’esistente e non è a sua volta incluso nel sistema del mondo, sciolto com'è dalla connessione del tutto). Cause e ragioni fondanti sono inadeguate al divenire del mondo poiché pensate al suo interno; piuttosto, come l’essenza dell’uomo, vanno pensate a partire dall’estatica apertura al mondo. Al centro dell’attenzione è il Weltspiel. “Il mondo –scrive Fink mimando Nietzsche- gioca con il fondo dionisiaco che produce il mondo apollineo delle forme… gioca congiungendo e sciogliendo, intrecciando morte e vita…al di là di ogni giudizio valutativo, poiché tutti i valori compaiono all’interno di questo gioco”. Nel gioco l’uomo ha la possibilità di conoscersi come compagno di gioco nel gioco cosmico. L’accordo, la consonanza, l’Einklang cosmico di uomo e mondo sono sigillati nel gioco della necessità. Per primo Nietzsche ha insistito nel  determinare il senso dell’essere a partire dal gioco e dal rischio: “il tempo tutto mi sembrò irrisione beata di attimi…la necessità era la libertà stessa che giocava col pungiglione della libertà” dirà Zarathustra. La terra è tavolo divino per giocare a dadi con gli dei, il cielo è tavolo di dei per lanci divini: tra i due tavoli, il cielo incrinato e la terra infranta, dilegua il giocatore.

Qui il gioco smette i panni del fanciullesco e mostra i segni del terribile, indizio che ogni cosa è arrischiata, come l’uomo sospesa ed esposta, e dove l’uomo stesso sta allo scoperto, privo di riparo, in maniera diversa dagli altri enti. Nell’incertezza egli è il solo che cerca verità e consistenza nella sicurezza di sé; mentre esplora tutte le proprie possibilità in seno agli enti, l’uomo tende ad organizzare la propria messa al sicuro. Producendo la messa in gioco di ogni cosa, egli ha in vista la propria sicurezza, disponendo gli oggetti secondo un rischio calcolato, si vede e pone come incondizionato. Qui tendono ad unirsi estremo soggettivismo ed infondatezza di tutto, mancanza di suolo o fondo e capacità di dar fondo ad ogni cosa: nichilismo. L’uomo è mancanza di fondamento (Ab-grund), negatività all’opera capace di fondare positivamente la possibilità del mondo come totalità strumentale, secondo una linea Meister Eckart-Hegel.

Interrogare il gioco è indagare il fondamento (l’Essere, per Heidegger). Non nel senso che il gioco fondi, perché ciò lo ridurrebbe al rango di semplice cosa interna al mondo; il gioco è grund-los, dà ragione ma è senza ragione, sfugge se riportato ad un fondo e in base a questo spiegato. C’è un salto. E' soltanto una delle possibilità quella del pensiero che, rappresentandosi il gioco come un ente e cercandone ragione e fondamento, lo determina come dialettica di necessità e libertà (nell’orizzonte di un fondamento, di una regola) fino al noto detto di Leibniz per cui Cum Deus calculat fit mundus, ovvero “mentre Dio gioca, diviene (un) mondo”.

Ma pensato con conseguenza ciò che dovrebbe dare un fondamento, si spalanca nel senza fondo cui tocca attingere come fonte delle possibilità umane. All’uomo non resterebbe che prendere atto della propria inclusività in un gioco che lo trascende, giocandolo con più o meno felice abbandono. Da qui discende pure, per antropomorfizzazioni successive, il tema forte dell’uomo come giocattolo degli dei. Già Platone scriveva che l’uomo “non è fatto che per essere giocattolo nelle mani di dio” e che in tutta la vita dovrebbe “giocare ai più bei giochi che vi siano…Vivere giocando, e giocando giochi come i sacrifici, i canti, le danze che ci renderanno capaci sia di ottenere il favore degli dei, sia di respingere gli attacchi dei nemici e di vincerli nella contesa” (Leggi, 803 b). Ma ancora prima aveva sostenuto la rappresentazione degli esseri viventi come “una marionetta costruita dagli dei, se per loro divertimento o per scopi seri, non ci è dato sapere…” (Leggi, 644 d); oppure: gli uomini sono soltanto “marionette, benché tocchi loro, talvolta, qualche particella di verità” (Leggi, 604 d). Motivi che lambiranno l’età moderna, attraverso neoplatonismo e patristica, pur se l’oscillazione platonica tra divertimento e serietà assumerà tonalità sempre più tragiche, per le mutate disposizioni della triade uomo, dio, mondo lungo il percorso storico dell’occidente. Se in Eraclito mortali e divini traevano la loro “forza poetica” dal gioco cosmico cui erano estaticamente aperti, se aion era il luogo cui uomini e dei attingevano per le proprie creazioni, in modo tale che, per quanto grande fosse la differenza che li separava, questa non era invalicabile, con lo stagliarsi deciso dell’Abendland quel comune rapporto s'indebolisce e più decisa si fa la distinzione tra divini e mortali, fino a pensare l’essenza umana sulla distanza da un dio. Gli dei platonici giocano con l’uomo-marionetta; quando gioca, l’uomo è sotto il vigile sguardo di un grande giocatore, di un dio-persona.

Il sospetto di Nietzsche, che “forse gli dei sono ancora fanciulli e trattano l’umanità come un giocattolo, e sono crudeli senza saperlo e rompono tutto innocentemente” (da un framm. post. del 1879) fornirà materia di discussione per molti anni a venire: intanto segnaliamo l’accostamento tra un certo tipo di sovranità e di animalità (cui il bambino è ancora prossimo), tra dominio e bestialità, che viene a muovere ed intorbidire le acque troppo chiare della secolarizzazione. (Due figure che aiutano a pensare i limiti dell’umano: nel loro essere posti come limite dell’ordine umano, fuori legge, il sovrano e l’animale mostrano una strana familiarità).

L'ipotesi di un dio-creatore rattoppa un cosmo non più organizzato e perfetto. Se un dio ha creato il mondo, ha pensato l’uomo come scimmia di Dio, come motivo ed occasione di spasso nelle sue lunghe eternità. La musica delle sfere allora è soltanto una risata di scherno delle altre creature intorno all’uomo. Questo Dio invocava lo gnostico Melville a partire dal fragore del gran telaio del mondo ? “Oh tessitore assiduo! Tessitore invisibile, fermati ! una parola: dove va questa trama ? quale palazzo deve ornare ? a che scopo tutte queste incessanti fatiche ? Parla tessitore ! arresta la mano ! solo una parola ! Ma no- la spola vola- le immagini compaiono alla vista sul telaio, il tappeto della velocità di torrente scivola via per sempre. Il dio-tessitore tesse, e da questo tessere è tanto assordato che non sente più voce mortale, e noi pure che guardiamo il telaio siamo assordati da questo ronzio, e solo quando ne fuggiremo potremo udire le migliaia di voci che parlano attraverso” (Moby Dick, CII).

Dio, “annoiato immortale”, solletica il suo animale preferito con il dolore, gioiendo (come inventore di un inventore) dei gesti ora tragici, ora orgogliosi, delle interpretazioni dell’uomo, “la più vana creatura”. L’universo volge le spalle al bell’ordine, alla sapiente articolazione: “l’intero congegno sonoro ripete eternamente il suo motivo che non potrà mai dirsi una melodia” (La Gaia Scienza, 109). E’ noto come L. Spitzer datasse al Cinque-seicento il primo stadio di quel processo di demusicalizzazione e secolarizzazione che è il biglietto da visita del moderno, l’inizio dell’era della disintegrazione dell’idea stessa di Stimmung come armonia e consonanza universali: accelerazione di quel progressivo rendersi autonomo e contrapporsi egoistico-particolare di ogni creatura nei confronti della causa fondante che prima cementava il tutto riferendo a sé ogni cosa.

Il gioco umano si scopre infondato, grund-los, si dimostra vano, non vede più gioco del mondo o armonia delle sfere capaci di conciliare la frammentata discordanza dei molteplici giochi umani. Concordia e redenzione avvengono in e per una discordia-vanità senza fondo. Il suono del mondo è il risultato di lotte particolari, del conflitto che raccoglie nel confronto le divergenti volontà degli uomini. In quei decenni, a partire da Machiavelli, Hobbes o Retz lo schieramento di ambizioni contrapposte viene tematizzato come gioco politico in grado di governare il caos di appetiti.

Nel Cinque-seicento tutto ciò convive con una Stimmung di cui va spegnendosi l’eco: da un lato, gioco del mondo come immagine-memoria di una Tradizione, dall’altro quel mondo è privato del reticolo di rimandi simbolici in cui si mostri una segnatura rerum. Il mondo testo-tessuto di allusioni simboliche, carta geografica “orientata”, divina raccolta di significati, rinvia ormai perlopiù all’universo sbriciolato, polverizzato che “is crumbled out againe to his Atomies. ‘Tis all in pieces, all coherence gone” (J. Donne, Anatomy of the World).

Un altro esito “troppo umano” blocca il pensiero del gioco nei confini della chiusura banalizzante: l’ambivalenza di essere ed apparire, mutevole ed immutabile viene sussunta nelle categorie di maschera e volto. Il soggetto, per quanto indebolito, gioca mondanamente con le apparenze e le maschere fondandosi sul proprio nulla. Gioca con la vita, perdendo di vista la libertà nel gioco, l’unica da cui originano i significati. Un po' come se in letteratura ci “limitassimo” agli anagrammi o lipogrammi, orientati dalle contraintes e ciechi verso quanto sfugge alla presa esibizionistica della maestria, sordi ai lapsus lucidi delle tante scritture del disastro, al clinamen che rende cigolante e lievemente incoerente ogni pretesa di sistema ( così G. Perec nell'intervista citata da Bartezzaghi). Ma qui per adesso tacciamo.

“postiamo” con largo anticipo (gennaio) un testo per “Fogli di Via” n.4 (Marzo 2011)